martedì 4 gennaio 2022
La Cancel culture si presenta come figlia barbara del vuoto, come una oscurantista idiozia che ciclicamente viene diffusa tra le masse dagli estremisti, e che viene poi difesa da alcuni intellettuali in cerca di spessore. Viene prescritta come farmaco drogante dalla più irrazionale furia sub-popolare, e suo nemico principale è il discernimento critico sugli eventi storici, periodo per periodo. Viene sposata, la Cancel culture, dai surrogati giacobini di ogni epoca: persino nei partiti dell’establishment e del politicamente corretto. Secondo il letterato inglese Samuel Johnson chi ha così poca conoscenza della natura umana, sì da cercare la felicità volendo cambiare tutto tranne il proprio atteggiamento, sprecherà la sua vita con sforzi inutili, aumentando i dolori che si volevano eliminare. Al di là di ogni irragionevole semplicismo, chi fa politica in serio stile e crede di poter incidere in società per sensibilizzare un Montanelli pezzetto di mondo alle innovazioni civili, deve misurarsi innanzitutto con la capacità di gestire i propri cambiamenti. Come ben diceva Indro, riferendosi all’Italia, “a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere un padrone da servire”. Se oggi il padrone da servire veste senza i simboli del potere per antonomasia, e anzi si confonde nelle masse per sollevarle a un grido giacobino di cancellazione di tutte le meditazioni culturali precedenti, il diritto di critica diviene il più sacro dei doveri liberali, per gli intellettuali che vogliano sentirsi impegnati nel sociale.
Far evolvere un costume sociale che poi possa sfociare in una tutela giuridica specifica o speciale è un processo storico complesso, utile soltanto se rispecchia o rispetta i più opportuni tempi e modi realizzativi. La Cancel culture invece disprezza il dialogo, opprime le identità, soffoca la complessità intellettuale degli individui liberi, assorbendo questi ultimi nelle nebulose masse da mandare idealmente al potere, per poi scoprire che mai ci arriveranno. La ferocia dell’oblio storico-politico, che la cultura della cancellazione promuove senza saggezze e senza illuminismi, è anti-democratica, sterile, pericolosa. Si pone in contrasto con le sembianze di un Paese a ordinamento costituzionale pluralista, garantista, che anzi ha il compito di guardarsi dentro per valorizzare le proprie buone radici nella promozione delle libertà dell’Io. Onore alle tante statue purtroppo imbrattate. La vernice usata come arma per imporre un oblio vendicativo, rossa o nera che sia, è un disprezzo alla pace scientifica della cultura, alla felicità degli individui che all’interno dei gruppi riescono ancora a tenersi più o meno fuori dal coro. Nel luglio 2020, in un momento in cui la società stava sollevando il drammatico problema della violazione dei diritti e delle garanzie della popolazione americana di etnia afro, e nel momento in cui all’interno delle contestazioni si facevano strada alcune infiltrazioni estremiste, circa 150 intellettuali – tra cui spicca il nome di Noam Chomsky – hanno pubblicato una lettera aperta su Harper’s Magazine, con la finalità di discernere sostanzialmente tra drammi e soluzioni drammatiche ai problemi. Se la presunta soluzione crea essa stessa drammi, non risolve il problema.
Nella lettera si avverte il senso di pericolo derivante da una nuova serie di standard morali e schieramenti politici che tendono a indebolire il dibattito aperto, in favore del conformismo ideologico. Dove arriverà la furia nichilista della cancellazione culturale? Verranno a storcere il naso persino sulle immagini e sulle intestazioni toponomastiche dedicate a San Paolo di Tarso, solo perché secondo il “tribunale” del politicamente corretto una sua frase sul ruolo della donna nel rapporto di coppia genera oggi troppi dubbi? I dubbi sono sacri e servono a crescere, interrogandosi sempre. I pesi e i contrappesi garantisti del liberalismo post-contemporaneo, quanto meno, dovrebbero risparmiarci di vedere elevato a Leviatano un sistema che censura le radici pregnanti della nostra civiltà. “Human rights are my pride”? Verissimo, nella misura in cui non si discrimini ingiustamente il diritto alla libera manifestazione dei pensieri.
di Luigi Trisolino