Le passerelle internazionali sul clima

lunedì 15 novembre 2021


I social, in particolare Facebook, possono ospitare contenuti serissimi, ma anche argomenti leggeri e post scherzosi. Alcuni hanno preso l’abitudine, una volta trascorsa una festività, di pubblicare, per esempio, quanto segue: “E anche questo Natale ce lo siamo levato dalle scatole”. Potremmo scrivere più o meno in questa maniera anche per quanto riguarda la Cop26, ossia la conferenza annuale sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, tenutasi a Glasgow in Scozia e appena conclusasi. Non si può che reagire con sufficienza e disincanto di fronte al summit scozzese che, come tutte le precedenti conferenze delle parti patrocinate dall’Onu e incentrate sul clima, indicate appunto con l’acronimo Cop, e senza discostarsi molto dalla parte dell’ultimo G20 dedicata al surriscaldamento globale, ha rappresentato soltanto l’ennesima passerella internazionale priva di sbocchi concreti.

Si inizia sempre con parole impegnative, promesse solenni e i negoziati vengono descritti come decisivi, complice anche una informazione accondiscendente e più realista del re, ma si finisce poi con impegni generici che sono vincolanti fino a un certo punto e compromessi al ribasso volutamente confusi. La montagna partorisce il topolino. Da Glasgow giunge la parola d’ordine di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi dai livelli pre-industriali; un obiettivo più ambizioso di quanto previsto dall’Accordo di Parigi del 2015 che immaginava i 2 gradi come target.

Viene prefigurato il taglio del 45 per cento delle emissioni di anidride carbonica al 2030 per poi giungere a zero emissioni nette al 2050, ma da oggi alla metà del secolo passerà parecchia acqua sotto i ponti. Circa la riduzione delle emissioni, la de-carbonizzazione e la non eliminazione di fatto del carbone, ma solo il disegno di una diminuzione dell’uso di combustibili fossili, i proclami iniziali della Cop26 si sono via via ammorbiditi nel testo finale. D’altra parte, era del tutto prevedibile questo epilogo perché anzitutto è impensabile che India e Cina, ma anche la Russia, accettino stravolgimenti nel breve e medio periodo, e infatti a Glasgow Nuova Delhi e Pechino hanno sbarrato la strada alle idee di de-carbonizzazione totale. Oltre a queste grandi potenze e alle loro, diciamo così, necessità produttive, vi è un’ampia fetta di mondo che non può ancora permettersi di fantasticare di monopattini e auto elettriche. Ci può essere la persuasione, ma non le imposizioni di fatto neo-dirigiste della nuova ideologia globale dipinta di verde, e il premier britannico Boris Johnson, un conservatore convertitosi all’ecologismo spinto, pare averlo compreso. Un mondo diviso fra un Occidente ligio al dovere ambientalista e un Oriente che brucia carbone come se non ci fosse un domani, sarebbe tragicomico.

La conclusione, per così dire, annacquata della Cop26 è stata voluta forse anche da alcuni leader occidentali, a cominciare dalla Casa Bianca, sebbene non lo si possa confessare apertamente e convenga lasciare la parte dei cattivi a indiani e cinesi. Il presidente Joe Biden e i Democratici americani, i quali agitano lo spettro del global warming fin dai tempi di Al Gore, non potranno mai dirlo, a differenza di Donald Trump che poteva affermare delle verità in totale libertà, ma probabilmente si stanno rendendo conto di come il mondo di oggi non consenta accelerazioni di stampo ideologico e fughe in avanti. In tutto questo c’è anche l’ipocrisia di un establishment che sogna un futuro bucolico, ma non è per nulla interessato ad aiutare economicamente i Paesi sottosviluppati nella transizione ecologica.

Uno dei tanti obiettivi della Cop26 era appunto l’aiuto, un fondo da 100 miliardi di dollari all’anno, che i Paesi ricchi avrebbero dovuto dare a quelli poveri al fine di supportarli nella conversione dei loro sistemi produttivi e della mobilità, ma nel documento finale non compaiono date e quindi, certezze. Per quanto rappresenti un tabù per l’attuale classe dirigente americana, è possibile altresì che Oltreoceano non si abbia la convinzione di seguire in toto i dettami dell’integralismo green di Greta Thunberg e simili, che continua ad essere opinabile sul piano scientifico. Il catastrofismo ambientalista ha monopolizzato il dibattito degli ultimi anni e ha coperto le analisi che continuano a contraddire i piagnistei di Greta, ma c’è chi ritiene, con studi alla mano, che l’aumento della temperatura terrestre dipenda solo in minima parte dalle attività umane. Pensiamo, per esempio, al fisico Antonino Zichichi e al professor Franco Battaglia, i quali hanno qualche nozione in più rispetto all’adolescente che bigia la scuola.


di Roberto Penna