Non chiamatelo stato d’emergenza

mercoledì 10 novembre 2021


Siamo parecchio turbati. La causa del disagio non è più il Covid in sé, né lo sono i potenziali effetti catastrofici della malattia. Ciò che allarma è l’uso strumentale che il potere fa del probabile rischio di una ripresa consistente del contagio. Badate bene: il potere, non la politica. Già, perché quest’ultima, almeno in Italia, ha deciso di ritirarsi a vivere in un’altra dimensione, dove alberga il DdlZan”, lasciando i comuni mortali a sbrigarsela da soli con gli accidenti della vita quotidiana. La politica: malconcia divinità di un wagneriano Götterdämmerung (Crepuscolo degli dei).

Il potere, oggi impersonato da Mario Draghi, uomo solo al comando, ha superato la fase di surroga del decisore politico per assurgere al ruolo, più consono a un monarca assoluto, di regolatore di tutte le cose. Anche di quelle finora gelosamente custodite nelle sacre Tavole del Pactum societatis, che sono le libertà individuali (un tempo) incomprimibili. Com’è stato possibile che ciò accadesse, quando vi era la diffusa convinzione che la forma di Governo democratica fondata su un solido impianto costituzionale d’ispirazione liberale non fosse in alcun modo scalfibile? La parola di passo che è servita a spalancare le porte a un nuovo ordine sociale è “stato d’emergenza”.

La speciale condizione, che spinge una comunità a vivere per un tempo breve in quella che giuridicamente si potrebbe definire la “terra di nessuno”, tra la legge e la sospensione della sua validità, è stata giustificata dal diffondersi della pandemia e, nella fase acuta, dal crescere a dismisura della contabilità dei morti. Poi però il “tempo breve”, requisito inderogabile per legittimare la compressione delle libertà, ha tradito se stesso trasformandosi, di proroga in proroga, in “tempo perenne”. Si è cominciato il 31 gennaio 2020 con la prima delibera del Consiglio dei ministri che dichiarava lo stato d’emergenza sanitaria per 6 mesi “in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili”. Siamo quasi alla fine del 2021 e, con l’approssimarsi il prossimo 31 dicembre della scadenza dell’ennesima proroga, dalle stanze del Palazzo fuoriescono voci che ne danno per scontato il prolungamento fino alla primavera del 2022. Eppure, le stesse fonti assicurano che la campagna vaccinale sta funzionando bene; i dati sulla pandemia forniti dalle istituzioni preposte delineano un quadro confortante sulla capacità del Sistema sanitario nazionale di fare fronte ai contagi circolanti; le attività lavorative sono totalmente riprese, sebbene con qualche limitazione circoscritta al comparto produttivo dell’intrattenimento e dello spettacolo artistico e sportivo; le scuole sono state riaperte in ogni ordine e grado; le università idem; il traffico aereo è ripreso con regolarità; i trasporti pubblici non hanno smesso di funzionare fino al massimo della capienza consentita, anche quando non avrebbero dovuto. Perché mai si avverte il bisogno di prorogare lo stato d’emergenza?

La verità è che esso non è più tale, già da molto. La verità, che nessuno osa ammettere pubblicamente ma che tutti conoscono a cominciare da coloro che quel potere straordinario se lo sono preso, è che siamo immersi – meglio: sprofondati – nello “stato d’eccezione” di schmittiana memoria. La differenza tra la condizione generata da quest’ultimo rispetto a quella che si configura con lo “stato d’emergenza” non è roba di poco conto. Al contrario: ci cambia la vita. Ricorrendo alla diversificazione formulata da un noto giurista (Gustavo Zagrebelsky quotidiano La Repubblica del 28 luglio 2020): “All’emergenza si ricorre per rientrare quanto più presto è possibile nella normalità (salvare i naufraghi, spegnere l’incendio). All’eccezione si ricorre invece per infrangere la regola e imporre un nuovo ordine”. La nostra Comunità nazionale sta scivolando gradualmente nella nuova condizione che assicura agli individui protezione in cambio di libertà, un pacifico conformismo nell’agire collettivo al posto dell’urticante confronto democratico; l’ortodossia del pensiero unico, politicamente corretto, contro le fughe e le deviazioni dell’eterodossia; pensiero convergente che scaccia dal campo delle interazioni umane ogni forma di pensiero divergente.

Al concetto di stato d’eccezione si associa la figura del sovrano al quale è attribuito il potere supremo della decisione. Ora, domandiamoci: non è così che siamo messi in Italia? Non è forse vero che qualsiasi cosa faccia il premier Draghi o, su sua delega, il Governo sia giusta e incontestabile essendo la decisione presa non in nome ma per il bene del popolo sovrano rimasto tale solo sulla carta? Opporvisi è da negazionisti, da credenti d’una religione o di una setta che non oscillano di fronte alle smentite della realtà (Zagrebelsky). Ciò non è soltanto sbagliato ma è velleitariamente antiscientifico, antitetico alla linea di flusso del divenire della Storia. Scioperare, protestare pacificamente, disubbidire in forma non violenta, violano il nuovo ordine. Su un punto Zagrebelsky ha ragione: “L’emergenza non è l’eccezione e l’eccezione non è il grado ultimo dell’emergenza. Sono due cose diverse.

Ma da noi quello steccato è stato saltato da un pezzo. La gente comune, asfissiata dagli affanni quotidiani, neanche se n’è resa conto. Non bada a certe sottigliezze da intellettuali. Se si sente dire dai megafoni di Stato (i media) a ogni ora del giorno e della notte che le cose funzionano e il Pil cresce come mai accaduto prima, ci crede. Forse si dirà che da quando c’è Draghi i treni arrivano in orario. Ma lo si diceva anche di qualcun altro che, per un ventennio lo scorso secolo, ha sequestrato la libertà degli italiani. A breve si terrà l’elezione del presidente della Repubblica e c’è chi ipotizza un approdo di Mario Draghi al Quirinale per essere capo dello Stato con poteri rafforzati: un modo ipocrita per non definirlo monarca assoluto. C’è da gestire fino al 2026 il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), finanziato dall’Unione europea con oltre 200 miliardi di euro. C’è la controversa transizione ecologica da realizzare entro il 2050. Ci sono le grandi riforme strutturali il cui compimento è atteso da decenni. Sussurrano a mezza voce i cantori dello stato d’eccezione: “Per queste cose servono uomini forti, credibili presso la comunità internazionale e i mercati finanziari, che prendano decisioni rapide. Non serve il chiacchiericcio inconcludente dei partiti”. Mario Draghi, con un pugno di uomini e donne fidati, guiderebbe lo Stato dal Colle in una sorta di presidenzialismo de facto; lascerebbe a Palazzo Chigi un suo plenipotenziario; surrogherebbe con il proprio carisma la funzione legislativa finora attribuita dalla norma fondamentale a quel reperto archeologico che è il Parlamento. E le leggi non si limiterebbe a firmarle ma le detterebbe. E al diavolo la Carta costituzionale. Ma non era la più bella del mondo?

La cosa sorprendente è che i più convinti assertori della prosecuzione dello stato d’eccezione stiano nel centrosinistra. D’altro canto, perché stupirsi? È da dieci anni che, in un modo o nell’altro, i “compagni” stazionano al potere a dispetto dei verdetti elettorali. Al riguardo: perché sprecare denaro pubblico in quelli che il qualcuno di cui sopra chiamava spregiativamente “ludi cartacei”, visto che c’è tanta gente che alle urne neanche ci va più? Perché infastidire i sudditi con inutili liturgie partecipative? C’è Draghi e, presumibilmente, nel 2023 vi sarà da qualche parte in Italia un malato di Covid o si troverà un’altra variante del virus in circolazione tale da giustificare la prosecuzione dello stato d’eccezione. Conveniente allora sospendere le elezioni: lasciamo tutto com’è adesso. Saranno contenti i parlamentari grillini che continueranno a ricevere lo stipendio. E saranno contenti quegli italiani che apprezzeranno il fatto che i treni arrivino in orario e che non vi siano più scioperi in strada a turbare la pace, dal discutibile retrogusto cimiteriale, delle persone perbene. Tutto giusto e perfetto. Ma a una sola condizione: che ci venga risparmiata la pagliacciata, tutta di sinistra, delle manifestazioni contro il fascismo che torna.


di Cristofaro Sola