L’occasione dei referendum sulla giustizia

lunedì 8 novembre 2021


Possiamo ancora sperare che l’Italia imbocchi la strada dell’autentico liberalismo, il cui presupposto necessario è il reciproco riconoscimento di legittimità delle forze politiche antagoniste? Fin quando l’avversario politico sarà demonizzato come “nemico”, colpevole a priori di tutte le possibili nefandezze, e l’ostilità travalicherà i confini del confronto programmatico, giungendo nelle aule dei tribunali, la strada non potrà dirsi imboccata. In Italia la delegittimazione della destra comincia sotto le spoglie della “impresentabilità” culturale, ma finisce poi inevitabilmente in un capo d’imputazione, che dà vita a uno dei tanti “processi del secolo”. L’elenco sarebbe lungo e noioso; si dovrebbe risalire alla “destituzione” del presidente Giovanni Leone, passare per Giulio Andreotti, Calogero Mannino, colpevoli di nulla, ma ugualmente “incapacitati” per via giudiziaria, a esercitare il loro ministero politico, e giungere infine ai casi odierni. Attenendoci alle vicende dell’oggi, osserviamo che tutti i leader di centrodestra risultano “azzoppati” per via giudiziaria o almeno culturalmente delegittimati, in attesa di azzoppamento giudiziario prossimo venturo.

Silvio Berlusconi è stato condannato da un tribunale, in composizione straordinaria, presieduto da un giudice, che non poteva essere, né tanto meno apparire, super partes, avendo espresso in più occasioni la sua immensa “stima” per quella “chiavica”; senza dimenticare che il leader di Forza Italia, mai processato prima, divenne improvvisamente “imputato a vita” in mille processi, dopo la sua “discesa in campo”. Matteo Salvini ha potuto sperimentare di persona la particolare predilezione dei tribunali italiani per gli imputati, appartenenti allo schieramento politico di centrodestra, essendo sottoposto in assoluta solitudine a un inverosimile processo penale, per una scelta politica condivisa da tutto il Governo. Il presidente del Consiglio è stato esentato dalla faticosa incombenza di andare in tribunale a difendersi, perché evidentemente in quelle riunioni del Consiglio dei ministri dormiva. Il nostro sleepy Giuseppi, a somiglianza del più moto sleepy Joe, appartiene di diritto alla categoria dei “presentabili”, sicché non è proprio il caso di farlo sedere accanto a un soggetto “impresentabile”, ancorché entrambi abbiano condiviso la responsabilità politica e giuridica del presunto “sequestro di persona”. Giorgia Meloni non ha avuto ancora l’onore di sedere tra i banchi degli imputati, ma c’è tempo. Non mancano nei suoi confronti le incolpazioni politiche, che domani potrebbero evolversi in accuse penali. Non è stato ancora formulato a suo carico un capo d’imputazione di “ricostituzione del disciolto partito fascista”, ma siamo a un di presso. È già iniziato il tiro al bersaglio, che potrebbe azzoppare domani, ma in ogni caso delegittima fin da oggi, il destinatario.

Inoltre, per imboccare la via della nostra libertà è necessaria un’ulteriore “legittimazione”, culturale e giuridica.  Il Parlamento e il Governo, il potere legislativo e il potere amministrativo, devono svolgere il loro compito in serenità, senza la spada di Damocle del fatale “avviso di garanzia”, che garantisce una sola cosa: la paralisi del “garantito”. Oggi basta un semplice “avviso” per delegittimare il politico di turno, giacché per la sua integrale legittimazione non è sufficiente il consenso elettorale, ma è molto più importante il gradimento dell’anonimo sinedrio dei “giudici”, all’interno del quale siedono in posizione di preminenza coloro che giudici non sono, ma esercitano un ufficio ben diverso dal giudicare, ossia l’ufficio di accusare, proprio del pubblico ministero. Poco alla volta, nel corso della Prima Repubblica, e dopo la sciagurata abrogazione dell’autorizzazione a procedere, con la velocità di una valanga, si è creato un pericoloso squilibrio tra i poteri costituzionali dello Stato, a tutto vantaggio del cosiddetto potere giudiziario, che sfugge a ogni tipo di controllo ed esercita una supremazia de facto, con effetti paralizzanti sull’attività di governo della res publica, a tutti i livelli (nazionale, regionale, comunale). Sottoposta al ricatto morale dell’“avviso”, la “politica” in quanto tale è divenuta impotente e rifugge dall’assunzione di responsabilità, chinandosi sovente alla “tecnica”.  E i “tecnici”, chiamati a sostituire i politici, invocano un loro speciale scudo immunitario, se risulta insufficiente il cordone protettivo, nazionale e sovranazionale, dei “poteri forti” che non hanno bisogno del consenso popolare.

Se sono vere queste premesse, ne discende necessariamente una conseguenza: l’occasione storica per imboccare la via dell’autentico liberalismo è offerta dalla risposta che il popolo italiano darà nella prossima primavera ai quesiti referendari sulla giustizia. La vittoria dei sì non potrà avere l’effetto miracolistico di riequilibrare immediatamente i poteri dello Stato, né di sottrarre al ricatto morale dell’“avviso” i politici di ogni sorta, e massimamente quelli di centrodestra, stranamente più graditi alle patrie galere e ai tribunali italiani, ma vivaddio potrà innescare un circolo virtuoso per le due legittimazioni decisive per le sorti della democrazia italiana: quella degli “impresentabili” di destra, contrapposti ai “virtuosi” di sinistra; quella dei politici tout court, investiti dal consenso elettorale, contrapposti agli “incontrollati” controllori della legalità e ai “tecnici” della nomenklatura, non investita da alcun consenso popolare.

Stupisce che sia sfuggito ai tanti maestri del presunto liberalismo, parolaio e inclinato in direzione sinistrorsa, l’importanza di questo snodo, che può rivelarsi decisivo per la storia della nostra Repubblica; ed è sfuggita, chissà perché, la paternità politica dell’iniziativa referendaria. Riconoscendo la primazia storica al Partito Radicale, occorre prendere atto che la più grande battaglia liberale – autenticamente liberale – degli ultimi anni è stata promossa e combattuta dalla Lega del famigerato Salvini, “sovranista”, poco “europeista”, “sequestratore” di profughi e, perché no, “antidemocratico”. I tanti cantori di questo immenso “coro” del pensiero unico non si avvedono che in Europa non vige lo squilibrio dei poteri che affligge l’Italia; come non vige la stessa demonizzazione dell’avversario politico; la stessa succubanza della politica innanzi alla magistratura; la spada di Damocle della carcerazione preventiva. Uno sguardo all’Europa dovrebbe far loro capire che difendere gli interessi nazionali non equivale a rinnegare la coesione europea (se così fosse, il primo sovranista sarebbe Emmanuel Macron) e le “unicità” italiane, che ci mettono fuori dall’Europa, sono proprio quei privilegi tecnocratici di tutte le nomenklature (prima fra tutte la magistratura), cui tutti i coristi sono particolarmente affezionati. È possibile che questi coristi abbiano capito ben poco oppure, avendo capito molto e avendo in odio la libertà degli uomini, osteggino le autentiche battaglie liberali? Ed è possibile che infine la più grande battaglia liberale in Italia sia stata capeggiata proprio da Salvini?


di Michele Gelardi