Le pile scariche del Governo

lunedì 8 novembre 2021


Il Governo Draghi ha le pile scariche. Inutile girarci intorno: la sua forza propulsiva sta man mano scemando. Non per incapacità del presidente del Consiglio, ma per contrasti sempre più acuti tra i partiti di maggioranza e per lacerazioni interne agli stessi partiti.

C’è poco da fare: fin quando il sistema costituzionale rimarrà incentrato sul parlamentarismo, nessun Governo, anche quello guidato dalle migliori menti e dai personaggi più autorevoli, può dirsi al sicuro nella sua navigazione.

La coesione e la forza di un Esecutivo non si misurano mettendo in fila i ricevimenti, i tagli dei nastri o le cene di gala, e neppure con gli applausi internazionali e gli omaggi della stampa. Si misurano solo con la sostanza dei provvedimenti. E quelli presi dal nostro nelle ultime settimane dimostrano, proprio, che le pile si stanno esaurendo.

Mi riferisco, in special modo, ai due più importanti interventi che, insieme a quello sulla giustizia, il Governo doveva adottare per rispettare gli impegni presi in Parlamento e davanti alla Commissione europea: la riforma fiscale, da un lato, e quella del mercato e della concorrenza, dall’altro.

Il disegno di legge delega sul fisco è poco più di un guscio vuoto, un lenzuolo bianco. Al di là della revisione del catasto, che tanto e inutilmente ha fatto discutere le forze politiche, la riforma ha un solo, vero punto qualificante, di sistema si può dire, che è anche un’affermazione politica molto rilevante, sulla quale, invece, nessun partito si è soffermato: la vittoria del capitale sul lavoro.

La mia non è una presa di posizione ideologica a favore o contro l’uno o l’altro, è solo una constatazione. Il capitale ha vinto perché i suoi rendimenti saranno tutti, indistintamente, assoggettati a un’aliquota proporzionale “secca” – si ipotizza del 23 o 26 per cento – compresi quelli che derivano da investimenti in imprese, società, professioni, immobili, azioni o strumenti finanziari.

I redditi di lavoro, diversamente da quelli di capitale, saranno sottoposti alla progressività dell’Irpef. La progressività dell’intero sistema, quindi, si reggerà unicamente su questi. Certo, su tutti i redditi di lavoro, di qualsiasi tipo – dipendente, autonomo o dell’imprenditore – ma solo su di loro.

Anche i non esperti capiscono al volo come, in questo modo, il sistema da lievemente progressivo, com’è l’attuale, si trasformerà in regressivo, con buona pace della Costituzione e dello stesso disegno di legge delega, che in apertura afferma solennemente, invece, di voler “preservare la progressività”.

Per il resto, come detto, pagine da scrivere ed enunciati senza costrutto.

Sul versante della concorrenza il discorso è simile. Le proposte di riforma sono poca cosa e i nodi scorsoi sono ancora tutti lì: esercizio degli stabilimenti balneari, commercio degli ambulanti, acqua, trasporti, sanità, istruzione, previdenza e sistema pensionistico, ordini professionali e molto altro. Solo per piccole cose, come per le licenze dei tassisti, sono state individuate strade alternative al monopolio o all’oligopolio. Eppure, tutti sanno che la mancanza di reale concorrenza nei grandi settori – non tanto o soltanto nel trasporto affidato alle auto bianche, diciamo le cose per come stanno – è un freno potentissimo alla produzione. È uno dei macigni, insieme al debito, che ostacola la crescita del Paese.

Su questo versante ha vinto l’attendismo, a scapito, almeno per ora, di uno squarcio di liberalismo e a vantaggio della conservazione delle rendite di posizione, siano esse private, siano esse pubbliche. Quando, invece, sono proprio le rendite a frenare l’espansione e il fluire della ricchezza in alcuni dei principali settori dell’economia nazionale.

Ecco perché il Governo ha le pile scariche: a petto della centralità di queste materie, la pochezza sostanziale degli interventi programmati sono la cartina di tornasole della fine della spinta propulsiva della grande coalizione.


di Alessandro Giovannini