Cinque Stelle: o Roma o Orte!

sabato 9 ottobre 2021


Nell’ottobre del 1922 un simpatico sfottò attribuito a Mino Maccari, vignettista de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, canzonava i manipoli dei fascisti marchigiani che si erano persi la Marcia su Roma perché rimasti imbottigliati nell’ingorgo ferroviario di Orte, nel viterbese. Per sottolineare sarcasticamente la figuraccia, Maccari aveva trasformato il noto grido garibaldino “o Roma o morte!” in: “O Roma o Orte!”.

È passato un secolo ma la Storia, per rinfrancarsi dalla drammaticità del suo svolgersi, ama concedersi pause di sorprendente comicità. Cosicché, a fare il verso ai “disguidi” di un’impresa rocambolesca ci hanno pensato i dirigenti (contiani) del Cinque Stelle 2.0. Nella lunga notte elettorale dello scorso lunedì, nel mentre la grillina Virginia Raggi, sindaca uscente di Roma, si consolava con le 211.816 preferenze raccolte praticamente da sola, i vertici del “Movimento” si precipitavano in massa a Napoli, a rischio ingorgo, per essere nella photo opportunity del neo-eletto sindaco Gaetano Manfredi (area Partito Democratico), solo nominalmente espressione della coalizione di centrosinistra allargata ai Cinque Stelle. Eppure, nella città partenopea il contributo grillino allo sforzo bellico della gioiosa macchina da guerra progressista si è ridotto a un modesto 9,73 per cento di consensi, pari a 31.805 voti. Ora, è lecito domandarsi se la logica in politica sia diventata un optional o se sia caratteristica del nuovo corso pentastellato non caparci nulla. Preveniamo l’obiezione: a Napoli l’accordo politico con il Pd, voluto da Giuseppe Conte, ha dato la vittoria; a Roma la cocciutaggine della sindaca a voler essere della partita a tutti i costi ha condotto alla sconfitta. Se è questo che pensano Giuseppe Conte e compagni è spiegato il perché siano destinati alla sparizione dalla geografia partitica dell’Italia.

A Napoli l’apporto contiano al candidato Manfredi è stato ininfluente ai fini del risultato ottenuto dal neosindaco. Virginia Raggi, nelle condizioni date, ha invece compiuto un mezzo miracolo raccogliendo un consenso inaspettato se si considera il modo pessimo con cui ha amministrato la Capitale nei cinque anni di mandato. Non ha vinto, ma la “pupilla” di Beppe Grillo si è procurata una discreta dote di consenso per aspirare a dire la sua all’interno del Movimento. Che sia Virginia l’alter ego dell’avvocato di Volturara Appula?

Vi sono indizi in tal senso. Il primo, macroscopico, riguarda l’immediatezza. Come si comporteranno i Cinque Stelle al ballottaggio tra il “dem” Roberto Gualtieri e il “destro” Enrico Michetti? Giuseppe Conte ha dichiarato: “Non è pensabile che il M5S possa avere compatibilità con le politiche della destra. La destra non è compatibile con le nostre politiche”. Ergo, si va con Gualtieri. Particolare di dettaglio: i voti a Roma li ha presi la Raggi. L’ex sindaca non ha alcuna intenzione di servire la vittoria su un piatto d’argento a chi l’ha insultata fino a ieri l’altro. Si dovrebbe asservire a Gualtieri per fare un piacere a un leader e a una dirigenza che, a suo parere, stanno tradendo il lascito valoriale che la comunità grillina ha ricevuto da Gianroberto Casaleggio. Ma l’avete guardata in faccia, la ragazza? Ha quell’espressione puntuta e indisponente da sembrare un Carlo Calenda in gonnella. Che la Raggi, senza troppi clamori, possa prestarsi a dare un aiutino al candidato del centrodestra? Potrebbe starci.

La sindaca ha un problema serio. Nei cinque anni di mandato ha costruito all’interno dell’Amministrazione comunale una sua squadra di riferimento. Queste persone oggi rischiano di essere messe da parte dal nuovo sindaco per effetto dello spoil system – espressione orrenda – più o meno occulto, che funziona a tutti i livelli delle istituzioni quando avvengono cambi al vertice. La Raggi, quindi, è costretta a uscire dalla torre eburnea e scendere a patti con uno dei due sfidanti al ballottaggio. Ora, Roberto Gualtieri, pur di recuperare l’appoggio dell’altro sconfitto al primo turno, Carlo Calenda, si è impegnato a fare piazza pulita dell’apparato che ha sostenuto la sindaca durante il suo mandato. È Calenda che gli ha chiesto pubblicamente discontinuità con il recente passato. A Virginia, se volesse tutelare qualcuna delle risorse che ha avuto al suo fianco, resterebbe la strada obbligata dell’accordo con Enrico Michetti. D’altro canto, il candidato del centrodestra, che ha dichiarato ripetutamente di non avercela con nessuno e di non aver attaccato nessuno nel corso della campagna elettorale, mostra di essere l’uomo di mondo in grado di risolvere al meglio il problema che assilla la Raggi. Non sappiamo se Michetti, come Totò, abbia fatto tre anni di militare a Cuneo o se, constatando dove si fosse concentrato il grosso del consenso della sindaca sconfitta, si sia fatto due conti e abbia concluso che un patto con lei lo agevolerebbe nella volata finale per il Campidoglio. Certo è che i due si siano visti per un caffè. E hanno cordialmente chiacchierato.

C’è poi la questione interna al Movimento. Il flop elettorale del Cinque Stelle è un colpo alla leadership di Giuseppe Conte. Il malcontento serpeggia a tutti i livelli in quella che fu l’armata grillina. In molti di loro resta forte la tentazione di smarcarsi dal Governo Draghi. D’altronde, l’ennesima capriola non sarebbe una novità, vista l’attitudine acrobatica dimostrata in questi anni dai “moralizzatori” della vita pubblica. Il problema, però, è di non far saltare il banco giacché tutti i parlamentari grillini, qualsiasi cosa pensino del loro nuovo capo, su un punto si ritrovano graniticamente compatti: salvare la cadrega fino alla fine della legislatura. E poi non basta mugugnare: occorrono un progetto politico e una figura di leader edibili per l’opinione pubblica. Finora i dissidenti hanno sperato nella “discesa in campo” di Alessandro Di Battista. Tempo perso, lui è una sorta di Godot beckettiano. Se Giuseppe Conte è il temporeggiatore inconcludente, il “Godot” grillino è l’incertezza fatta persona. Al contrario, Virginia Raggi è cocciuta e tignosa, e ha un’ambizione smisurata. In fin dei conti, è lei il profilo giusto di guastafeste che può fare saltare i piani della combriccola di Conte.

Vincenzo Spadafora, grillino di punta della prima ora, cresciuto nella bambagia dei circoli mastelliani in Campania, di politica se ne intende. Perciò, se lui pronostica che “prima o poi Conte dovrà fare delle scelte, sulla segreteria e sull’identità del partito, ed è normale che quelle scelte provocheranno divisioni e fratture”, c’è da prenderlo sul serio. Intanto, la Raggi a Roma ci vive. Gli altri, i “the others”, quelli che stanno con l’avvocato di Volturara Appula, stiano attenti a non restare imbottigliati da qualche parte, lontani dalla Capitale. Sai che fregatura sognare di restare a bivaccare nei “sacri palazzi” di Roma e, invece, finire la spericolata ma lucrosa avventura politica su un binario morto della stazione di Orte, dopo una penosa gita fuoriporta in quel di Napoli.


di Cristofaro Sola