Il fantasma della libertà e il coraggio delle donne

venerdì 10 settembre 2021


Sembrerà assurdo, paradossale, inverosimile ma c’è un filo rosso che lega l’Italia all’Afghanistan. È il legame tra le vicende della politica nostrana e le proteste di piazza delle donne di Kabul e delle principali città afghane. Il nodo di congiunzione è la libertà. Non è uno scherzo: la battaglia che una parte della destra italiana sta conducendo in Parlamento e all’interno della maggioranza governativa contro l’estensione del green pass a tutte o quasi le interazioni sociali è consonante con la sfida lanciata dalle donne-coraggio afghane ai loro oppressori talebani per non tornare a essere prigioniere del burqa e, con esso, schiave della misoginia degli uomini. È questione di libertà, in entrambi i casi.

Ma la parola “libertà” non può essere declinata allo stesso modo in contesti abissalmente differenti. Già, perché la categoria concettuale che ha occupato il dibattito politico in casa nostra, a proposito delle misure da assumere in sede governativa per fronteggiare il rischio di recrudescenza della pandemia, attiene alla cosiddetta “libertà negativa”, che è il diritto dell’individuo a non subire interferenze da parte di altri, e in particolare da parte dello Stato. Quella, invece, per cui stanno combattendo le donne afghane è “libertà positiva”: desiderio insopprimibile di essere padrone di se stesse, di essere strumento proprio e non altrui degli atti di volontà che le riguardano, di essere soggetti e non oggetti del proprio destino.

A un’osservazione superficiale il parallelismo potrebbe apparire blasfemo. E, in effetti, qualche disagio lo crea l’accostamento del voto contrario dei parlamentari leghisti, insieme a quello di Fratelli d’Italia, all’estensione del green pass alle attività commerciali come ristoranti, cinema e palestre, alle scene di violenze ai danni delle donne che hanno osato sfidare l’arroganza talebana. Si tratta di due livelli di coraggio incomparabili. Purtuttavia, il nesso c’è. Benché sia comunemente accettato, anche dalle parti del pensiero liberale più intransigente, che la libertà individuale non possa essere illimitata, altrimenti condurrebbe al caos non essendo armonizzabili in toto le intenzioni e le attività umane, il problema sta nella definizione dell’estensione del perimetro individuale entro il quale a nessuno, a cominciare dallo Stato, sia permesso interferire. Più quel confine si allontana più l’individuo è libero.

Eppure, il prezzo pagato alla libertà del singolo non può essere la privazione della libertà degli altri. La rinuncia a un pezzo significativo di essa – è la tesi della sinistra – renderebbe tutti più liberi. Qual è, dunque, per l’individuo il limite di cessione dello spazio esclusivo di decisione che non deve essere valicato, pena l’annichilimento della forza costitutiva della libertà? Rimanendo sul piano della stretta attualità, la polemica sull’estensione del green pass era sembrata eccessiva. In particolare, era apparsa una forzatura demagogica l’ostinazione nel voler considerare la certificazione pensata dal Governo come uno strumento di coartazione della libertà personale. Poi, però, c’è stata la lettera scritta a quattro mani da Massimo Cacciari e Giorgio Agamben che ha spiazzato il campo liberale. Per i due filosofi il green pass introduce, in primo luogo, una discriminazione tra chi ne è in possesso e chi ne è sfornito, tale da mettere in discussione i cardini della società democratica (argomentazione egualitaria). In secondo luogo, il tracciamento di tutti gli individui, o quanto meno la maggior parte di essi, sarebbe l’atto proprio e consapevole di uno Stato totalitario (argomentazione libertaria). Cacciari e Agamben nella “lettera” citano due esempi eclatanti: “Non a caso in Cina dichiarano di voler continuare con tracciamenti e controlli anche al termine della pandemia. E varrà la pena ricordare il “passaporto interno” che per ogni spostamento dovevano esibire alle autorità i cittadini dell’Unione Sovietica”.

I due esagerano? E se invece avessero ragione nel denunciare il rischio della deriva autoritaria? D’altro canto, l’opinione pubblica si sta abituando all’idea che la normalità, superata la fase emergenziale, possa trasmigrare nello “stato d’eccezione” schmittiano, dove la sovranità esce dall’alveo costituzionale che la assegna al popolo per depositarsi nelle mani di un unico decisore politico (sovrano). Non è forse vero che per l’immaginario collettivo il solo che decide in Italia sia “Super” Mario Draghi? Sentiteli i nostri concittadini intervistati per strada: Draghi lo vorrebbero ovunque, al Quirinale, a Palazzo Chigi, a fare l’amministratore di tutti i condomini d’Italia. Si comprende perché nessuno abbia emesso un fiato sulla decisione di prorogare causa Covid lo stato di emergenza, con annessi poteri straordinari al premier, fino al 31 dicembre 2021.

Stando così le cose, Matteo Salvini (pur con qualche ondeggiamento) e Giorgia Meloni non sbagliano a battersi contro un provvedimento – il green pass esteso – che la maggioranza demo-contiana vorrebbe spacciare per frutto della ragionevolezza e della responsabilità. Nessuno più di noi è convinto della necessità di fare marciare insieme l’interesse del singolo e le istanze della comunità, senza preordinare rigide gerarchie nella scala delle priorità. Tuttavia, esiste quel confine della non-interferenza nella libertà individuale che non deve essere violato.

Se c’è un problema con le vaccinazioni, si segua la via maestra che in uno Stato di diritto resta la legge. Il Governo proponga e il Parlamento approvi l’obbligo vaccinale per tutti. Se non si ha il coraggio di farlo non si giochi al rimpiattino con la libertà delle persone. Camuffare un obbligo che non si ha la forza d’imporre con un altro obbligo “smart” che discrimina, precipita la società in un lugubre egualitarismo orwelliano nel quale tra i consociati, “vigilati” da un “Grande fratellotecnologico, ve ne siano alcuni più uguali degli altri. Se c’è in ballo la sicurezza e la salute della maggioranza degli individui si pongano in essere interventi mirati. Ma è bene che i tracciamenti restino circoscritti alle categorie sensibili ai fini della sicurezza sanitaria e non estesi “a tappeto” all’intera popolazione.

Ciò che, tuttavia, resta insopportabile è la pretesa, ipocrita, di voler coartare la libertà del singolo in nome del raggiungimento di un livello di libertà che solo in via ipotetica si assume essere più “alto”. Siamo seri: un liberale non si sottrae a una legittima primazia dell’istanza “organica” comunitaria. Ma non è immaginabile che quello stesso liberale, in nome della prevalenza di un preteso interesse collettivo, subisca passivamente ogni colpo inferto alla sua libertà, fino all’annientamento. Se non è sufficientemente chiaro il concetto, si prenda esempio dalle donne Kabul che stanno insegnando al mondo che le ha illuse e tradite cosa voglia dire, in concreto, essere padrone di se stesse. Lì c’è un potere che vuole segregarle per il loro stesso bene. Ma quelle meravigliose donne non vogliono smettere di sognare la libertà. E per quel sogno sono disposte a farsi ammazzare. Il solo rapportarle alle nostre angosce, alle piccole paure quotidiane e alle convenienze spicciole di cui è intessuta la trama esistenziale dell’opulento Occidente, ci consegna a una figura barbina. La cruda verità è che le generazioni del nostro tempo storico hanno smarrito la memoria di come si faccia a tenersi la libertà. Se cominciassimo a ragionare con la nostra testa e a non seguire da automi il mainstream del politicamente-corretto sarebbe già qualcosa. Non tantissimo, ma qualcosa.


di Cristofaro Sola