Quando il giustizialismo riappare spacciandosi per sete di giustizia

martedì 20 luglio 2021


La verità è che la sete di giustizia, come la chiamano i pomposi negatori delle sue basilari costituzioni fra cui – e in primis – i pentastellati, viene spesso accompagnata dagli alleati, magari sottovoce, ma sempre compagni di avventura di Governo. Stiamo parlando, come è ovvio, del Partito Democratico.

Esemplare in questo senso lo sbandierato incontro fra il premier Mario Draghi e l’ex premier grillino, Giuseppe Conte, circa la riforma della giustizia, con quel dire e non dire, quel fare e non fare che è tipico del leader dell’incertezza a Cinque Stelle, e non solo sotto la minaccia più o meno visibile dell’Elevato che, quanto a giustizialismo, gode di mondiali riconoscimenti.

Il punto è che quando si dice basilari si parla proprio delle basi, o della base al singolare, di un Movimento che da sempre ha fatto strame dei principi di fondo della giustizia, dove quello dell’innocenza resta un caposaldo per la sua natura intrinseca ai dettami naturali prima ancora che giuridici.

Si dà ora il caso che Conte abbia a che fare, coi suoi alleati, con una riforma della quale Matteo Salvini ha detto, con chiarezza e un minimo di insofferenza, “che il Parlamento da trenta anni promette di riformare la giustizia e la Lega è decisa ad andare fino in fondo” forte, tra l’altro, delle trecentomila firme che rappresentano un doppio significato di difesa e di attacco contro non nuovi freni e colpevoli perdite di tempo.

In questo contesto non potevano non accendersi le lampadine se non i fari di un Movimento 5 Stelle la cui sensibilità per i problemi della giustizia – nel caso di Marta Cartabia si tratta di indubbi miglioramenti di tempi di processi penali e amministrativi come del resto impone l’Europa – è pari alla sua indifferenza proprio per quei passi in avanti, fermo com’è nella difesa perinde ac cadaver di retrostanti privilegi che non riguardano gli utenti ma i gestori.

È oltremodo significativo il clima di fibrillazione che genera fra i parlamentari grillini, atteggiamenti negativi se non ostili riferiti al testo di Cartabia con sintomi che sarebbero umoristici se non fossero irrispettosi di un minimo di serietà propositiva, come nel caso della prescrizione da diversificare confusamente nei tempi in base ai reati e loro gravità o come nei confronti della improcedibilità processuale con ipotesi complicate e di scarsa efficacia.

Ciò che stupisce, ma non troppo, è l’atteggiamento di Enrico Letta che, detto inter nos, non ha mai brillato per chiarezza innocentista, tanto è vero che rispetto alla riforma e ai freni a lei frapposti dai pentastellati non ha risposto con un bel “non ti curar di loro la guarda e passa” ma con esplicite intenzioni di proporre o di accogliere “piccoli cambiamenti” nel tentativo di venire incontro all’alleato di Governo con il quale vuole costruire un’alleanza elettorale stabile. E che voglia “venire incontro” all’alleato sul tema delicato della giustizia la dice lunga sulle effettive novità lettiane che avevano fatto sperare in molti in un vero e proprio cambio di passo su una riforma che, per dirla tutta, è frutto di un suo Governo e di un ministro come si dice amico/a se non addirittura compagno/a.

Ma il fatto a suo modo sbalorditivo è che alle incertezze e a certi rigurgiti giustizialisti di un Pd che ama proclamarsi garantista soltanto quando è parte interessata e minacciata dal giustizialismo si frappongono sia Lega che Forza Italia, due forze di Governo che non solo, come la Lega, lavorano per ulteriori milioni di firme, ma che avvertono Conte e lo stesso Letta (e anche Draghi, senza tuttavia tirarlo in ballo) che in questo Governo ogni cambiamento “piccolo o grande che sia” deve ritrovare un accordo con tutti i partiti che sostengono il presidente del Consiglio.

 


di Paolo Pillitteri