Morire per Taiwan?

venerdì 25 giugno 2021


Morire per Danzica?”. Dopo gli accordi di Monaco del 1938, contro i quali insorse profeticamente ma invano Winston Churchill (“Potevate scegliere tra la guerra e il disonore. Avete scelto il disonore e avrete pure la guerra”), Danzica divenne il pretesto della guerra. Con il patto Molotov-Ribbentrop, Adolf Hitler e Stalin alleati aggredirono la Polonia stringendola in una tenaglia mortale. Nazisti e comunisti, alla faccia dell’antifascismo e dell’anticomunismo reciproco, nel 1939 si spartirono quella nazione martire. Un deputato francese, appoggiando gli accordi di Monaco, scrisse l’articolo destinato a porre un interrogativo storico: “Morire per Danzica?”.

È materia nella quale i cicisbei dell’irenismo dovrebbero imparare dai giganti del realismo, da Tucidide a Machiavelli a Churchill, che proprio a riguardo ci ricorda che l’appeaser non è un pacificatore ma un accondiscendente che sfama la belva nella speranza di venir sbranato per ultimo.

Di cosa sto parlando e perché l’ho presa così alla lontana? Ebbene, nel recente vertice di Cornovaglia, le nazioni libere dell’Occidente e dell’Estremo Oriente hanno ritrovato un’apparente consonanza indotta dalla Cina. Il gigante asiatico fa più paura della Russia putinizzata, la quale infatti, nonostante l’annessione prepotente della Crimea, la guerra sulla frontiera con l’Ucraina e le subdole minacce alle nazioni baltiche ex sovietiche, non ha al momento un contenzioso esiziale con l’Occidente, né ideologico né economico. Tra l’altro la Russia, a parte gas e petrolio, vende all’Ovest poco più del caviale, mentre la Cina lo sommerge con ogni genere di prodotti, dall’altissima tecnologia alle più scadenti cianfrusaglie. La Cina, come un’enorme piovra, sta allungando i tentacoli ai quattro angoli della Terra. Succhia mercati e gonfia i muscoli per sostenere il suo parossistico sviluppo economico mentre, al crescere del benessere materiale, comprime la libertà individuale. I dirigenti, l’impenetrabile casta del Partito Comunista cinese, sono affrancati dal controllo democratico e soffrono all’evidenza del “complesso della rivalsa”, simile a quello che affliggeva Hitler. La Cina sottopone i suoi cittadini a repressioni violente, dagli Uiguri ad Hong Kong, ma potremmo considerarle “un affare interno”.

Invece Taiwan è un dirompente “affare internazionale”. Costituisce un potenziale, devastante, casus belli per ragioni evidenti, conosciute ma in sordina. L’isola ha lo status di nazione indipendente ma non gode di un generale riconoscimento internazionale perché la Cina terrorizza e ricatta chi lo concedesse. La Cina considera Taiwan una parte integrante del territorio nazionale, destinata a rientrare nella “madrepatria” sotto il Governo di Pechino. Alla Cina non interessa affatto che, sulla base dell’autodeterminazione dei popoli, i taiwanesi non vogliano assoggettarsi al dominio del Partito Comunista cinese. Ma, questo è il punto cruciale, Taiwan sta sotto l’ombrello atomico degli Stati Uniti d’America. Ha avuto la garanzia che in caso di attacco cinese gli americani la difenderanno anche impiegando l’arsenale atomico. Pur sapendolo, la Cina disloca nello Stretto di Formosa, rectius “di Taiwan”, navi da guerra perché capisca chi deve capire. Gli americani rispondono con la flotta del Pacifico. Lo Stretto è largo 180 chilometri. Troppe navi nel braccio di mare. Quasi si sfiorano. Finora né la Cina rinuncia alle sue pretese né gli Usa ritirano la garanzia atomica. Però adesso la Cina sta riarmando impetuosamente. La sua potenza, anche atomica, cresce di anno in anno, come la flotta. Cosa accadrebbe se la Cina sferrasse il primo colpo per riprendersi Taiwan? L’America dovrebbe onorare i trattati e difendere i taiwanesi con la guerra nucleare? Converrebbe all’Occidente e all’Estremo Oriente accondiscendere come un unico appeaser oppure trarre insegnamento dalla lezione di Monaco?

La “Lega delle democrazie” di Joe Biden, sebbene soltanto evocata nell’ultimo vertice, indica di per sé che esse percepiscono adesso il pericolo cinese nella sua completa portata. Il regime di Pechino viene considerato realisticamente non più soltanto un agguerrito concorrente economico ma un avversario militare con rivendicazioni destabilizzanti le relazioni globali. Torna attuale perciò l’interrogativo storico: “Morire per Taiwan?”.


di Pietro Di Muccio de Quattro