L’ostilità verso Israele come antisemitismo funzionale

giovedì 29 aprile 2021


Su una cosa il recente rapporto di Human Rights Watch dedicato a Israele ha ragione: «una soglia è stata superata». Sì, è stato valicato un limite, anzi due, ma è la stessa Human Rights Watch ad averli superati: da un lato il suo report oltrepassa il limite del caricaturale e del grottesco (cosa inammissibile per un’organizzazione accreditata presso l’ONU), presentando una realtà politica e sociale attraverso la lente deformante dell’ideologia filopalestinese, filoislamica e antisionista; dall’altro lato è stato valicato il confine che divide la critica all’operato dello Stato di Israele dall’antisemitismo come esito di un’azione, di un’analisi o di un’opinione. Sì, questo rapporto ha introdotto un livello nuovo: ha sdoganato quella forma di odio anti-israeliano e anti-ebraico che definisco antisemitismo funzionale.

Sappiamo che queste organizzazioni, protette dal Palazzo di Vetro, non hanno alcun problema ad attaccare qualsiasi governo non allineato al Palazzo, infangandolo con accuse allucinanti e spesso pretestuose (nel piccolo ambito italiano, nel gennaio 2011 il governo Berlusconi è stato accusato di razzismo e xenofobia per la politica restrittiva nei confronti dell’immigrazione di massa; a settembre 2018 il governo italiano, ma l’imputato reale era il ministro Matteo Salvini, è stato accusato dal vertice dell’ONU di violenza razziale e minacciato di controllo da parte di ispettori internazionali). Ma nei confronti di Israele c’è sempre stata, in quel Palazzo e nelle sue ideologie, un’avversione speciale, spiegabile soprattutto con la resistenza che Israele oppone alla tendenza all’annullamento delle nazioni che l’ONU ha sempre sostenuto e con il rifiuto israeliano di accettare gli ammonimenti (per meglio dire: i diktat) a comportarsi secondo criteri che l’ONU considera politicamente corretti.

Oggi, con un’azione apparentemente isolata ma in realtà concertata al massimo livello, perché collegata con l’orientamento dell’ONU e, come vedremo, con l’azione della Corte penale internazionale, questa discutibile Ong mette Israele sul banco degli imputati per razzismo e crimini contro l’umanità (ma con quale credibilità, poi?, con quale eredità storica, con quale missione spirituale, con quale autorità politica, con quale mandato popolare, con quale neutralità ideologica?), come se fosse l’Uganda di Amin Dada o la Repubblica Centroafricana di Bokassa. Assurdo, come in un dramma di Beckett o di Ionesco.

Sì, la misura è davvero colma; le ingiurie hanno superato ogni limite. E tuttavia non varrebbe la pena commentare il rapporto di HRW, tanto è mendace per faziosità delle accuse e perfino ridicolo per infondatezza delle analisi, come ha incontrovertibilmente mostrato Fiamma Nirenstein in un articolo su Il Giornale del 28 aprile, se non fosse per tre motivi densi di implicazioni strategiche: la Ong Human Rights Watch è molto quotata presso i vertici dell’ONU; riceve finanziamenti da istituzioni, enti e personaggi di notevole spessore e di un certo orientamento politico, come per esempio, ma non per caso, George Soros; le tesi anti-israeliane di HRW hanno ricadute a largo raggio, che possono andare dal consolidamento di una vulgata diffamatoria e, purtroppo, anche di un fronte di boicottaggio nei confronti di Israele (inteso come Stato e come popolo), all’incentivazione di atti di sabotaggio e, speriamo di no, anche di terrorismo da parte di quella galassia di sigle di cui si compone l’odio anti-israeliano in Medio-Oriente, allo scatenamento di aggressioni isolate ma violentissime verso simboli e persone dell’ebraismo in Europa, fino all’indiretto sostegno a quelle potenze statuali, l’Iran in prima fila, che si prefiggono esplicitamente la distruzione dello Stato di Israele. Per queste ragioni bisogna riservare la massima attenzione a pagine che altrimenti dovrebbero essere classificate come spazzatura.

Dopo la risoluzione ONU 3379 del 1975 che dichiarava lapidariamente: «il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale», pur emendata dalla successiva risoluzione 48/86 del 1991; dopo le inqualificabili affermazioni dell’allora segretario generale dell’ONU che nel 2001, in occasione della Conferenza mondiale contro il razzismo svoltasi a Durban, ebbe l’impudenza di ammonire Israele a «non usare l’Olocausto come scusa per le violenze» nei confronti dei palestinesi e degli arabi in generale; e dopo la risoluzione dell’ottobre 2016 con cui l’UNESCO ha sancito l’appartenenza del Muro del Pianto all’islamismo, con la conseguente estromissione dell’appartenenza ebraica e la rimozione, anche linguistica, della tradizione ebraica; dopo decine di risoluzioni minori tutte protese a condannare Israele per qualsiasi suo atto politico di carattere interno o internazionale; e dopo centinaia di azioni di boicottaggio, sabotaggio, denigrazione e diffamazione perpetrate dalle innumerevoli organizzazioni e associazioni anti-israeliane sparse in tutto il mondo ma soprattutto in Occidente, era prevedibile che questa tendenza proseguisse e anzi si accentuasse. E il rapporto di HRW ce ne dà ora la conferma, l’ennesima purtroppo.

Ciò tradisce una volontà occulta di considerare Israele nella migliore delle ipotesi come un protettorato dell’ONU e più realisticamente come uno Stato e un popolo da tenere sotto sorveglianza, uno Stato-nazione che andrebbe imbrigliato. Questa arroganza, derivante dal senso di superiorità e di impunità che questi organismi sovranazionali possiedono, infrange la sovranità di Israele, ne squalifica la legittimità e, soprattutto, considera il suo popolo come un’entità minore, nel senso anagrafico, un’entità che potrà essere considerata emancipata solo se si adeguerà alle direttive del governo mondiale a cui l’ONU, certamente con somma ambizione ma probabilmente anche con pari illusione, mira. E questa è – di fatto, nella realtà, nelle cose stesse – una forma di antisemitismo funzionale, che differisce da quello organico per forma ma non per effetti, posto che si sia in grado di capire che gli effetti possono variare per intensità quantitativa ma essere analoghi per intensionalità qualitativa.

Sappiamo come in generale si redigono i rapporti delle organizzazioni internazionali e come, nello specifico, vengono redatti quelli che riguardano Israele, i palestinesi e l’area limitrofa (per esempio, Hezbollah camuffato da organizzazione umanitaria), e quindi non ci dobbiamo stupire per questo ineffabile rapporto. Non ci meravigliamo e però ci preoccupiamo, perché qui si parla esplicitamente di «crimini dell'apartheid e della persecuzione», di «dominio discriminatorio di Israele sui palestinesi», e si passa dal resoconto di una situazione, per quanto distortamente presentata, all’accusa giuridica formale, quando, dopo aver minacciosamente dichiarato che «il diritto penale internazionale ha sancito due crimini contro l'umanità per situazioni di discriminazione sistematica e repressione: l'apartheid e la persecuzione», e dopo aver imputato entrambi a Israele, si cita il documento del febbraio 2021 della Corte penale internazionale, che «ha stabilito di essere competente per gravi crimini internazionali commessi negli interi OPT [Occupied Palestinian Territories], compresa Gerusalemme Est, che includerebbero i crimini contro l'umanità di apartheid e persecuzione commessi in quel territorio», concludendo con malcelata soddisfazione che «nel marzo 2021, l'Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale ha annunciato l'apertura di un’indagine formale sulla situazione in Palestina».

Ora, poiché «i crimini contro l'umanità sono tra i crimini più odiosi del diritto internazionale», e poiché Israele, secondo questo rapporto e secondo la stessa Corte penale internazionale, si sarebbe macchiato di questi crimini, si sostiene che Israele dovrebbe essere chiamato a risponderne alla sbarra. Tutto nella logica, in una progressione lucida e, sembra, inesorabile: l’ONU che equipara sionismo e razzismo, Kofi Annan che sproloquia dicendo che Israele usa la Shoah come paravento per perseguitare palestinesi e arabi in genere, HRW che fiancheggia la CPI nella delirante accusa a Israele di «crimini contro l’umanità». Siamo dinanzi a un calderone infernale in cui insieme a concetti e codici giuridici si agglutinano spettri ideologici, interessi politici, risentimenti economici nei confronti di Israele e del mondo ebraico in genere, filoislamismo, odio di religione, antisionismo immarcescibile e antisemitismo vecchio e nuovo.

Questo eterogeneo ma potente fronte ideologico tenta capziosamente di sostenere che l’attacco a Israele sia diverso dall’antisemitismo, accampando la tesi della differenza tra ebrei in quanto persone e Israele in quanto Stato (tesi ipocrita e assurda, come se si potesse distinguere fra ebrei e israeliani), ma la verità viene ora a galla:  l’odio verso Israele è una variante dell’antisemitismo, è ciò che Pierre-André Taguieff ha definito «la nuova giudeofobia», che si alimenta dell’unione fra «israelofobia» e «palestinofilia». Verrebbe da chiedersi perché la Anti-Defamation League non denunci l’antisemitismo funzionale, strisciante ma insinuante, mascherato da antisionismo, contenuto nel rapporto di HRW. Forse perché non lo vede? O non lo vuole vedere?

Oggi circolano indisturbatamente definizioni quali imperialismo israeliano, complotto sionista, sionisti come nazisti e altre insensatezze simili, che pongono un serio problema non solo politico ma anche culturale e che le istituzioni dovrebbero prendere come segnali estremamente inquietanti. Qui l’antisemitismo della sinistra comunista si congiunge con quello neonazista, in una spirale che provoca vertigine, che colpisce allo stomaco proprio perché si inabissa in meandri che vorremmo vedere finalmente polverizzati. Tanto Israele e il suo popolo sono riusciti a dare concretezza storica, esistenziale e perfino statuale al «mai più» che tutto il mondo libero ha sinceramente gridato dopo Auschwitz, tanto questi sgangherati attacchi e queste ideologiche accuse a Israele ridanno corpo al mostro nazi-comunista e rimettono in discussione quel «mai più». Un capolavoro di stupidità e scelleratezza, di odio e di cecità.

Monitorare i diritti umani, come recita la sigla HRW, è non solo giusto ma anche doveroso, perché l’oggetto di monitoraggio è della massima dignità e rilevanza, ma quando si utilizzano le cose e le parole per scopi strumentali e ideologici, si fa un doppio danno: da un lato si infanga un governo, uno Stato, un popolo, macchiandolo con l’accusa infamante come quella di razzismo; e dall’altro lato si lorda un concetto, quello dei diritti umani, che avrebbe, esso sì, diritto a difensori onesti e non ideologicamente pregiudicanti.


di Renato Cristin