Caso Salvini-Open Arms: se questa è giustizia

martedì 20 aprile 2021


Porto di Valona, città della costa meridionale albanese, affacciata sul Canale d’Otranto. È il pomeriggio del 28 marzo 1997. Le condizioni del mare sono buone ma fa freddo e l’acqua è gelida. Una nave è attraccata al molo con i motori accesi, pronta a salpare. È la Kater I Rades, una piccola unità con un passato da motovedetta della Marina militare albanese, costruita nei cantieri navali russi e poi ceduta dall’Unione Sovietica al Governo di Tirana anni prima. Rubata dal vicino porto della cittadina di Saranda, che dal 1940 al 1944 per gli italiani era stata Santi Quaranta e il suo porto ribattezzato “Edda” in onore di Edda Ciano, figlia prediletta di Benito Mussolini.

A fare il colpo sono criminali locali nel business del traffico di esseri umani. Anche per il 28 marzo il programma prevede il trasporto di un carico di umanità dolente da una parte all’altra delle sponde dell’Adriatico. È dall’agosto del 1991 che va avanti il traffico di immigrati irregolari che dall’Albania nel caos totale provano la fuga verso la Terra promessa: l’Italia. Per passare oltre o per restarci. Ma questa volta è diverso. Da alcuni giorni il Governo italiano schiera unità della Marina militare nel Canale d’Otranto per bloccare le “carrette del mare”. Il pattugliamento rafforzato del basso Adriatico (di fatto un blocco navale) è figlio di un accordo raggiunto su un efficace piano anti-esodo tra il presidente del Consiglio Romano Prodi e il premier albanese Bashkim Fino. È l’operazione “Bandiere bianche”.

D’altro canto, che fare di diverso? La situazione nel Canale d’Otranto è insostenibile. Gli scafisti albanesi sparano con i kalashnikov contro chiunque provi a fermarli. Tre giorni prima della firma dell’accordo a Roma dal mercantile “Haftetato”, carico di 353 persone, hanno sparato addosso a Giovanni Bisio, comandante della Capitaneria di Porto di Brindisi che con una motovedetta ha tentato di ostacolarne l’attracco. La quadra politico-diplomatica tra Roma e Tirana è trovata: denari e aiuti dall’Italia in cambio di uno stop alle partenze d’irregolari dall’Albania. Ma questo i criminali del porto di Valona lo ignorano o fingono di non saperlo. Tant’è che la malconcia Kater I Rades alle ore 16 prende il largo con il suo carico di 142 anime e tutta la disperazione del mondo.

Alle 17,15 si materializza la prima brutta sorpresa. La Kater I Rades ha appena doppiato il capo della penisola di Karaburun quando è intercettata dalla fregata Zeffiro della Marina militare italiana. Dal ponte di comando dell’unità da guerra parte l’ordine d’invertire la rotta e tornare a Valona. Ma i criminali non sanno che farsene del rispetto delle regole: hanno un carico da recapitare che significa denaro. E a quello non si rinuncia. Tirano dritto. La “Zeffiro” è troppo grande per effettuare manovre dissuasive contro la piccola imbarcazione in fuga senza rischiare la collisione. Allora lascia il compito a una corvetta, la “Sibilla”, di dimensioni minori e più manovriera, che nel frattempo incrocia nello stesso tratto di mare.

Sono le 17,30. Al comando della corvetta c’è l’ufficiale di Marina, Fabrizio Laudadio. La situazione si complica. La Kater I Rades è a 35 miglia da Brindisi. Laudadio cintura l’imbarcazione clandestina girandole intorno in cerchi concentrici sempre più stretti. Ma Namik Xhaferi, il “negriero” al comando della Kater I Rades, non si lascia intimorire: la costa italiana è a un palmo di mano. Neanche Laudadio è disposto a mollare. Sono le 18,45. Sul Canale si allungano le ombre della notte. La collisione diventa destino. Cinico e illogico. La Sibilla “tocca” la nave fuggiasca. La Kater I Rades non regge l’impatto e si piega sul fianco. Neanche il tempo di un amen e affonda fino a distendersi sul fondo dell’Adriatico a 790 metri, portando con sé in un abisso di morte e di acqua 108 poveri cristi. Sopravvivono in 34. Il mare restituirà soltanto 81 corpi. Gli altri li terrà in pegno, per ricordare agli uomini quanto possa far male mancare di rispetto alle leggi che regolano l’ordinato andamento delle società civili.

Il 28 di marzo del 1997 è il giorno maledetto dell’affondamento di una carretta del mare col suo carico di speranze recise. Per la Storia è “la strage del venerdì santo” a memento, che quell’anno, la Via crucis passò per il Canale d’Otranto. Il disastro navale ebbe un’eco mondiale e vi furono prese di posizione contro il Governo italiano, ritenuto responsabile dell’accaduto. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (United nations high commissioner for refugees, Unhcr) si precipitò a dichiarare illegale il ricorso da parte italiana al blocco navale per impedire l’arrivo dei clandestini dall’Albania. Per l’Organizzazione mondiale di protezione umanitaria un atto di tale gravità non avrebbe dovuto essere deciso sulla base di un accordo bilaterale. Il presidente Romano Prodi, recatosi in Parlamento con tutti i suoi ministri a riferire sulla “strage del venerdì santo”, si giustificò asserendo: La sorveglianza dell’immigrazione clandestina attuata anche in mare rientra nella doverosa tutela della nostra sicurezza e nel rispetto della legalità che il governo ha il dovere di perseguire”. C’erano tutti gli elementi perché la magistratura non si limitasse a indagare i comandanti delle navi coinvolte nella collisione per l’accusa di naufragio e omicidio colposo ma volgesse lo sguardo verso i piani alti delle istituzioni.

Il 26 gennaio 2000 venne presentata un’interpellanza in sede parlamentare da alcuni deputati di Rifondazione Comunista per chiedere al presidente del Consiglio e al ministro della Difesa di riferire in merito al “verbale della testimonianza del capitano di corvetta Angelo Luca Fusco i cui contenuti – se confermati – indicano una grave responsabilità dei vertici militari e politici nell'affondamento della nave albanese”. Nell’interpellanza si fa riferimento alle “innumerevoli telefonate e colloqui radiofonici (tra i quali quello con l’ammiraglio Mariani e con le prefetture di Lecce, Brindisi e Bari) che precedettero lo speronamento da parte della Sibilla con la pericolante nave albanese.

Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si occupò del caso ritenendo “l’Italia responsabile dell’incidente in quanto esercitante attività al di fuori della propria giurisdizione. Ma chi c’era al Governo all’epoca dello speronamento? Il centrosinistra. Il premier era Romano Prodi. Il ministro della Difesa: Beniamino Andreatta. Ai Trasporti e Navigazione, Claudio Burlando. Al ministero dell’Interno sedeva tale Giorgio Napolitano (il nome vi dirà qualcosa). Nessuno di costoro finì davanti a un giudice. Neppure per un caffè. L’intera responsabilità del disastro fu scaricata su Fabrizio Laudadio che venne condannato in via definitiva, insieme al capitano della nave albanese, a due anni di reclusione.

Epilogo all’italiana. Palermo, 17 aprile 2021. Il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, Lorenzo Jannelli, rinvia a giudizio il senatore Matteo Salvini, in qualità di ministro dell’Interno del Governo Conte I, con l’accusa di sequestro di persona aggravato e rifiuto di atti d’ufficio per un fatto commesso a Lampedusa tra il 14 e il 20 agosto 2019. La vicenda riguarda la nave spagnola “Open Arms” dell’Ong Foundacion Proa (Pro-activa Open Arms) e il ritardato sbarco di 107 immigrati irregolari raccolti in mare a largo della costa libica dall’imbarcazione dell’Organizzazione non governativa e “giunti in prossimità delle coste dell’isola di Lampedusa nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2019”. Se questa è giustizia.


di Cristofaro Sola