lunedì 14 dicembre 2020
L’Unione europea ha ribadito in più occasioni quali debbano essere i pilastri portanti del Recovery plan, cioè quali debbano essere le condizioni essenziali per accedere al rilevante volano di risorse messe a disposizione attraverso la New Generation Ue. Come ha spiegato, parlando dei limiti di applicazione dei soldi del Recovery fund, Paolo Gentiloni, commissario europeo per l’Economia: “Spetta a ciascun Paese stabilire quali sono le priorità, e alla Commissione verificare che siano coerenti con un disegno complessivo. L’Italia – ha continuato Gentiloni – dovrà utilizzare questa opportunità per concentrarsi su alcuni grandi obiettivi: come la sostenibilità sociale, la modernizzazione del Paese, rendendo più efficienti burocrazia e giustizia civile e per le grandi transizioni verso il digitale e quella ecologica”. A chiarire ulteriormente ogni dubbio in merito al concreto spazio di utilizzo del Recovery fund sono arrivate le parole del vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis: “L’esborso delle risorse del Recovery fund avverrà dopo il raggiungimento di macro-obiettivi fissati nei piani nazionali per la ripresa. Prima – ha continuato – i Paesi che intendono accedervi dovranno fissare punti fermi sulle riforme e poi il denaro sarà distribuito”. Dunque, la Commissione europea è stata chiara: soldi sì, ma in cambio di riforme.
Non entro nel merito delle riforme che sicuramente il nostro Paese non sarà in grado di concepire ed attuare in poco tempo, non credo infatti sarà in grado di dare vita a riforme della giustizia o del comparto dei lavori pubblici, non credo perché significherebbe non produrre alcuna riforma, io, invece, vorrei che ci si soffermasse su due possibili riforme: quella legata alla fase autorizzativa delle opere infrastrutturali e alle reali competenze di tre dicasteri in merito alle scelte strategiche da compiere sempre nel comparto delle infrastrutture e mi riferisco in particolare al ministero dell’Economia e delle Finanze, al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e al ministero dell’Ambiente e quella relativa al superamento del gap che distanzia il Sud dal Centro Nord, quella cioè che caratterizza l’assurdo sistema delle “Due Italie”. Sembra strano ma i tre dicasteri prima richiamati ricoprono ruoli e competenze che sembrano autonomi ma, nella realtà, l’unico che svolge un ruolo programmatico decisivo è il ministero dell’Economia e delle Finanze, l’unico preposto alla verifica della validità tecnico-economica delle proposte avanzate dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e dalle Aziende controllate da quest’ultimo dicastero come le Ferrovie dello Stato e l’Anas è il ministero dell’Economia e delle Finanze, l’unico ministero che definisce la copertura finanziaria e, cosa davvero vincolante, ne articola la disponibilità concreta negli anni rendendo in molti casi inutili le aspettative programmatiche e progettuali non solo delle grandi Aziende come le Ferrovie e l’Anas ma dello stesso dicastero delle Infrastrutture e dei Trasporti è sempre il ministero dell’Economia. Mentre il dicastero che, con un parere o con lo strumento della Valutazione ambientale strategica o con la Verifica di impatto ambientale può bloccare la realizzazione di un’opera infrastrutturale strategica voluta e ritenuta essenziale ed indispensabile anche dal Parlamento, è il ministero dell’Ambiente.
Appare, quindi, evidente che la prima riforma è la “revisione sostanziale dei ruoli e delle funzioni di questi tre dicasteri”. La programmazione delle infrastrutture, la sua motivazione strategica deve rientrare nelle uniche competenze del ministero delle Infrastrutture e i due dicasteri, quello dell’Economia e quello dell’Ambiente, devono assecondare una simile azione e, se necessario, diventare attori essenziali ed indispensabili per dare compiutezza alla serie di proposte. Da parte sua il ministero dell’Economia deve identificare tutti i possibili prodotti finanziari, tutte le modalità di copertura delle proposte senza entrare nel merito della essenzialità o meno delle proposte stesse. Analogamente il ministero dell’Ambiente non può bloccare o ritardare la realizzazione di una infrastruttura utilizzando strumenti finalizzati a mettere in dubbio la realizzazione di un’opera. In questi oltre settanta anni di Repubblica due sole riforme hanno riguardato l’assetto dei nostri dicasteri quella che ha unificato in un unico ministero, quello dell’Economia e delle Finanze, i tre dicasteri del Tesoro, del Bilancio e delle Finanze e quella che ha unificato in un unico dicastero, quello delle Infrastrutture e dei Trasporti, i quattro dicasteri dei Lavori pubblici, dei Trasporti, della Marina mercantile e delle Aree urbane. Questa volta non si tratta di riunire più dicasteri ma di chiarire il ruolo e la funzione del dicastero dell’Economia e delle Finanze e, purtroppo, quanto prodotto ultimamente con il nome di “Next Generation Italia” denuncia ancora una volta che si è seguita una “pianificazione inversa”, una pianificazione slegata da ogni logica strategica, da ogni intuizione programmatica organica; in fondo si è deciso di assegnare prima le risorse e poi decidere cosa fare e questo comportamento, questa particolare liturgia denuncia ancora una volta che il soggetto decisore, il vero gestore delle scelte rimane il dicastero dell’Economia e delle Finanze e gli altri dicasteri e la stessa presidenza del Consiglio ruotano attorno a chi, in fondo, ha come unico riferimento la lente della copertura finanziaria. Quindi prima vera riforma dovrebbe essere quella di rivedere integralmente il ruolo e le funzioni di tale dicastero e in questa operazione non cadere nella trappola che sicuramente sarà portata avanti per motivare l’attuale comportamento e cioè che all’interno del dicastero c’è anche la funzione un tempo posseduta dal ministero del Bilancio e della Programmazione Economica; rispondo a tale possibile osservazione che una simile funzione deve solo essere utilizzata per fissare le linee strategiche, le linee quadro del Governo e non deve interferire, caso per caso, sulla identificazione delle scelte tecniche capaci di perseguire gli obiettivi definiti all’inizio nel programma di Governo.
Una seconda riforma dovrebbe affrontare e risolvere una delle più gravi emergenze del Paese, una emergenza che non siamo mai riusciti a superare; trattasi di una emergenza che caratterizza 8 Regioni del Paese su 20 e che è leggibile in soli due indicatori: il taso di disoccupazione ed il Prodotto interno lordo pro capite; trattasi di indicatori che si distanziano per una valore superiore al doppio: disoccupazione al Sud 18 per cento e al Centro Nord 8 per cento; il Pil pro capite al Sud 19mila euro e al Centro Nord 36mila euro. La causa o le cause le conosciamo o diciamo di conoscerle da sempre ma le soluzioni invocate finora non hanno ripotato nella “normalità” questa vasta area del Paese. Ed allora se davvero volessimo utilizzare, in modo mirato e concreto, le risorse che la Unione europea mette a disposizione – o speriamo dovrebbe mettere a disposizione – del nostro Paese a fondo perduto pari a 81,4 miliardi, queste andrebbero tutte destinate al Mezzogiorno e siccome tutti coloro che dal dopo guerra ad oggi, sì anche attraverso la intuizione essenziale ed encomiabile della Cassa del Mezzogiorno, non sono riusciti a incrinare in modo sostanziale quei due indicatori prima richiamati che caratterizzano la salute socio economica di otto realtà regionali, sarebbe opportuno compiere un atto di grande responsabilità e affidare a due organismi finanziari come la Banca europea degli investimenti e alla Cassa depositi e prestiti il compito di produrre una proposta di intervento organico della durata di sei anni mirata ad affrontare e risolvere cinque distinte emergenze: la ottimizzazione della mobilità delle persone e delle merci, l’approvvigionamento idrico e relativa distribuzione, il riassetto delle grandi realtà urbane, la riqualificazione del sistema sanitario, il riassetto del sistema scolastico. L’organismo formato dai due Istituti finanziari dovrebbe presentare entro sessanta giorni il quadro programmatico e attraverso il ricorso anche a forme di partenariato pubblico privato dare attuazione alla serie di iniziative strategiche contenute nel programma.
È una Cassa del Mezzogiorno anni “2000” forse; ci sono però due elementi nuovi: un organismo finanziario come la Bei che praticamente risponde a chi in realtà eroga a fondo perduto le risorse e cioè alla Unione europea e una obbligata tempistica a fare, a realizzare davvero le scelte programmatiche, infatti il vincolo imposto dalla Unione europea di completare la erogazione della spesa entro il 2026 rappresenta una garanzia. A tale proposito per iniziative progettuali con un arco realizzativo più lungo sarebbe possibile ricorrere a “contratti di disponibilità”.
Lo so: per il Governo il trasferimento alla Bei di una simile missione potrebbe sembrare una ammissione di incapacità gestionale, nei fatti è invece un primo atto di sprovincializzazione del Paese e, al tempo stesso, di concreta ammissione di settanta anni di interventi che mai, dico mai, soprattutto per carenza di un volano completo di disponibilità finanziarie, sono riusciti ad incrinare l’isolamento socio-economico del Mezzogiorno. Le mie sono proposte utopiche ed impossibili? Forse sì, consiglio però di leggere il documento prodotto dal Governo ed esaminato ultimamente dal Consiglio dei ministri “Next Generation Italia” e sono sicuro che questa possibile critica sarà ampiamente ridimensionata.
(*) Tratto dalle Stanze di Ercole
di Ercole Incalza (*)