lunedì 14 dicembre 2020
Andiamo subito al sodo: il Recovery plan è l’ultima spiaggia per l’Italia. Chi finge di non capirlo per conservare potere o per fatuità dovrebbe subire la pena del gelo riservata da Dante ai traditori della patria. Seguendo il dibattito di questi giorni non si può escludere che qualcuno rischi davvero di finire in quel girone. Vediamo perché.
Il “Piano nazionale di ripresa e resilienza” scritto dal Governo per dare seguito agli accordi europei è poco più di un fiume di parole, sebbene accompagnate da grafici dai colori fluorescenti e da numeri infiocchettati. Non contiene nessun progetto, se non l’indicazione di generiche e scontate linee d’azione, nessuna proposta su cosa il governo intenderebbe fare in concreto.
Questo è il vero deficit politico dell’esecutivo, molto più grave della pur grave sgrammaticatura istituzionale compiuta dal suo presidente nel tentativo di concentrare su di sé la gestione del Recovery. Questo comportamento lascia l’agro in bocca, ma è la pochezza sostanziale del piano che più deve preoccupare, perché è sulla sostanza che si gioca la ripartenza.
L’Italia dispone potenzialmente di una somma astronomica, 200 miliardi, un quarto di tutto il budget dell’intervento “NextGenerationEU”, molto più consistente di quella che gli Stati Uniti nel 1947 destinarono al “Piano Marshall”, che a valori correnti corrisponderebbe all’incirca a 50 miliardi di euro.
L’Unione, però, non è un club di filantropi, come non lo furono gli Stati Uniti. Se ha scelto di privilegiare l’Italia nella ripartizione del budget – e se ha perfino ceduto all’idea di indebitarsi – è perché la situazione delle sue finanze pubbliche è drammatica e la sua economia rischia di non essere in grado di sorreggerle adeguatamente. Perché cosciente del destino che potrebbero riservarle i mercati e gli “stati esteri mercanti”, terminato il piano di acquisto dei titoli del debito da parte della Bce. Perché cosciente che la sua alba o il suo tramonto economico può diventare l’alba o il tramonto di altre economie e dell’Unione stessa.
L’Europa ha scommesso che il bel paese sappia percorrere fino in fondo l’unica strada a sua disposizione per risalire la china: investire velocemente e massicciamente in opere pubbliche, incrementare la produttività e la domanda aggregata, così da aumentare Pil e posti di lavoro. E ha scommesso che il governo sia in grado di elaborare progetti nuovi e concreti, e sia in grado di decidere.
Qui s’innesta l’anomalia quasi kafkiana della congiuntura politica nostrana. Se il ruolo del Governo è essenziale per dare corpo al programma europeo, esso stesso e la compagine che lo sorregge non sembrano in grado di portare avanti questo compito, mancando di collegialità, visione e forse anche di adeguata competenza. Tuttavia non intendono ammainare la bandiera, sapendo che interi gruppi o singoli protagonisti perderebbero la centralità fin qui occupata, e preferiscono perciò andare avanti accordo dopo accordo, concessione dopo concessione, con strappi e ricuciture, espulsioni e migrazioni di parlamentari da un gruppo ad un altro.
A questo punto, però, nel ghiaccio dantesco rischia di finire il Paese e non per espiare colpe, ma perché i suoi nocchieri potrebbero essere così miopi da conficcarcelo dalla testa ai piedi.
Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, cosciente dell’enorme rischio che l’Italia correrebbe se perdesse la scialuppa del Recovery o tardasse a saltarci sopra, potrebbe esercitare il ruolo di Virgilio, che la Costituzione non gli preclude. Guidare i partiti verso una nuova fase istituzionale e affidare a personaggi “forti”, di caratura internazionale, il timone governativo, oppure portare il paese al voto nella prossima primavera. Così da evitare anche che, perdurando l’inconcludenza, siano i vertici dell’Unione a chiedergli, con le parole ingentilite della diplomazia, cambi radicali di passo. Dal naufragio italiano – non dimentichiamolo – anche l’Unione e altre economie potrebbero uscire infradiciate. E nessuno, proprio nessuno, intende correre questo rischio.
(*) agiovannini.it
di Alessandro Giovannini