Nota a margine: perché l’apparato statale è come è

giovedì 10 dicembre 2020


La Costituzione italiana prescrive che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge” (articolo 97). Questo metodo di reclutamento degli impiegati pubblici dovrebbe servire a scegliere i migliori nel rispetto del principio di uguaglianza. Cosa buona e giusta. Invece in tutte le branche, dall’università alla magistratura, per tacere dei lavori meno importanti, il modellino costituzionale spesso non riesce a scongiurare i concorsi confezionati su misura. Forse è inevitabile. Il male nel mondo esiste. E dunque trabocca pure nei concorsi. La Costituzione, in ciò accorta e lungimirante, con la norma proibiva le assunzioni senza concorso. Per fermare la crescita degli impiegati e delle spese, il governo talvolta introduce il blocco dei concorsi. Ma non realizza sol perciò l’intento di bloccare le assunzioni, che, per esigenze più o meno campate in aria, permangono, generando l’abnorme fenomeno del precariato. Gli assunti per concorso sono diminuiti mentre aumentavano i dipendenti non selezionati e senza le garanzie dei vincitori di concorso. Gli impieghi, però, sono prorogati per anni, con o senza la posizione “in attesa di concorso.” I governi sono beffati, ma non sempre dispiaciuti del risultato. I posti fissi diventano precari. Lentamente, come sabbia nella clessidra, i precari vengono stabilizzati con provvedimenti ad hoc, chiamati appropriatamente “sanatorie” perché guariscono un male senza debellare la malattia. Se il concorso setaccia i migliori, senza concorso passa di tutto. L’assunzione diretta, realizzata anche con mezzucci ed espedienti in frode alla legge, senza un decente vaglio attitudinale, in barba alla Costituzione, alle qualità individuali e all’uguaglianza legale, ha inzeppato di precari le pubbliche amministrazioni con l’avallo dei sindacati, dei politici, dei burocrati: le vestali ‘demi-vierge’ del divieto costituzionale di assumere senza concorso.

Il paradosso del principio meritocratico saggiamente prescritto dai Costituenti consiste in ciò, che mentre l’accesso dal basso alle pubbliche amministrazioni è affidato bene o male a una procedura selettiva, la preposizione dall’alto agli uffici di vertice, benché più importante in assoluto, è spesso affidata a scelte politiche discrezionali fino all’arbitrarietà. Tale metodo fu giustificato con l’argomento che il capo amministrativo dovesse godere della fiducia del capo politico. Una giustificazione che stride con le disposizioni costituzionali che sanciscono “l’imparzialità” della pubblica amministrazione e ne pongono gl’impiegati al “servizio esclusivo” della nazione. Accettare l’andazzo consolidato e biasimare la carenza di competenze negli apparati statali è il massimo dell’incoerenza. La verità effettuale conferma che la classe governante dell’ultimo cinquantennio non può proprio disconoscere la paternità della burocrazia così com’è.


di Pietro Di Muccio de Quattro