M5S: la crisi di un Movimento senza identità

lunedì 9 novembre 2020


In una recente intervista il numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, ha adombrato, molto cautamente, l’ipotesi di un avvicinamento del suo partito al movimento capitanato da Angela Merkel ma affrettandosi subito a chiarire che non sono alle viste approdi della Lega nel Partito Popolare europeo. Non sono uno stupido, ha concluso. E tanto meno lo è Matteo Salvini. Che questa ipotesi si avveri prima o poi, nel ragionamento di Giorgetti (che non è affatto uno stupido) non è difficile ravvisare un tema di fondo: l’identità. E che tale questione riguardi un partito-movimento che ha sempre coniugato l’identità differenziandosi da altre forze proponendosi come l’alfiere del Nord e dell’autonomia, è il sintomo di una sofferenza “politica”, di una esigenza, di una necessità. Things change, le cose cambiano, appunto, così come cambiano i riferimenti identitari e si stringe in tal modo una sorta di nodo gordiano da sciogliere. Ma se una tale pressione interna non è nascosta da un Giorgetti che di politica se ne intende, il discorso a proposito del M5S è esemplare di quanto questo movimento sia in un certo senso costretto a ridimensionarsi giorno dopo giorno.

La nascita dei grillini, il loro target primordiale è stato quello dell’antipolitica, del “no” misto a insulti, urlato contro tutti i partiti, del rifiuto di qualsiasi collaborazione, di qualsiasi contagio (è proprio il caso di dirlo) per preservare una sorta di purezza razziale in un contesto generale in cui l’onda d’urto grillino ha fatto breccia nell’opinione pubblica. Con l’appoggio, una vera e propria sovrintendenza, del Rousseau di Davide Casaleggio proprietario computerizzato dell’anima (e del corpo) a Cinque Stelle. E con un impressionante appoggio mediatico che ha fatto la differenza. Che il M5S sia oggi il primo partito nel Parlamento italiano la dice lunga sulla stessa incapacità di previsioni e di reazioni altrui, a parte la Lega che si è trovata spesso, e non a caso, in sintonia con l’incedere chiodato grillino col quale ha condiviso un anno di cammino governativo. Ma è proprio in questa scelta di potere che sono esplose le contraddizioni, se è vero come è vero che una cinquantina circa di deputati e senatori grillini se ne sono andati e nessuno sia arrivato. E che nessuno, o quasi, presti oggi attenzione al congresso o stati generali dai quali – quando la parola congresso significava una espressione o minaccia di concordanza o meno con le alleanze in corso-aspettarsi delle decisioni – è la testimonianza di una indifferenza nei confronti di un’assemblea, a sua volta computerizzata, di cui è tanto inutile comprenderne le modalità quanto improbabile attenderne responsi, fatte salve le solite giaculatorie dove l’unica novità sarà il drastico ridimensionamento dell’ingombrante Rousseau.

Il fatto è che alle porte dell’assemblea bussa proprio quella parola: “politica”, che i pentastellati hanno disprezzato e respinto come una macchia da cancellare e che, al contrario, ha permesso loro di accedere al Governo dove, come era prevedibile, hanno mostrato tutta la loro presunzione, incapacità e inadeguatezza. Fare i conti con la politica è un obbligo la cui portata è strettamente connessa con l’identità che prevede, innanzitutto, una visione del Paese, una capacità e una volontà in grado di confrontarsi con i problemi dell’oggi ma guardando oltre, al futuro, alle sue immancabili sorprese. La politica è una sfida nella quale non sempre vince il migliore, ma sempre i migliori, quelli che ne conoscono bene la logica la portata e le conseguenze, sono in grado di battersi con e per la propria identità.


di Paolo Pillitteri