venerdì 6 novembre 2020
Il 9 novembre, anniversario della caduta del Muro, è una giornata di alta intensità simbolica per tutto il mondo libero. Tre anni fa il presidente Donald Trump l’ha proclamata “Giornata mondiale della libertà”, ma già nel 2005 una legge del Governo Silvio Berlusconi l’aveva dichiarata “Giorno della libertà”, in ricordo appunto dell'abbattimento, il 9 novembre 1989, del Muro di Berlino, simbolo della cortina di ferro e del totalitarismo comunista. Oggi, da quasi vent’anni, Berlino è una delle mete turistiche più frequentate. I visitatori si riversano in particolare su quei quartieri che un tempo erano inclusi nella zona est: Potsdamer Platz, la Porta di Brandeburgo, la zona del Reichstag, Unter den Linden, il quartiere dei musei, e poi Alexanderplatz, Prenzlauer Berg, Pankow e altri ancora. Tutte aree che sono diventate veri gioielli urbanistici, casi di studio per gli specialisti che le osservano e che sono state una sorta di parco delle meraviglie per i numerosi architetti, i più celebri del mondo, che dalla metà degli anni Novanta hanno potuto sbizzarrirsi con totale libertà e con ingente sostegno di mezzi. La nuova Berlino, quella metropoli che ha riunito i due mondi un tempo separati dal folle progetto della società egualitario-totalitaria, è giustamente orgogliosa di questi risultati: è oggi la capitale europea forse più dinamica, sicuramente quella che ha nel più breve tempo realizzato la maggiore quantità di edifici di altissima qualità architettonica. In termini di velocità, come passare da zero a duecento chilometri all’ora in cinque secondi. La Berlino dell’ovest resta leggermente ai margini da questo flusso turistico e urbanistico, ma è anch’essa soddisfatta di queste realizzazioni e ne trae in ogni caso beneficio, incluso quello psicologico, superata la schizofrenia della divisione.
Ma per capire la Berlino che oggi viene così freneticamente visitata, quella dei quartieri dell’est, oggi diventati alla moda; per capirne la realtà storica e per capire la tragedia della divisione e della dittatura social-comunista, non basta passare davanti al Checkpoint Charlie o ai tratti di Muro lasciati in piedi, o visitare il museo del Muro. È necessario fare una deviazione dai circuiti più noti e recarsi ancora più a est, nel distretto di Lichtenberg e precisamente nel quartiere di Hohenschönhausen, per vedere l’ex prigione della Stasi (il ministero per la sicurezza dello Stato), che nel 1994 è stata trasformata in un memoriale, museo e insieme centro di ricerca. È lì che si fa l’esperienza, per fortuna non più diretta, del sistema maniacale di controllo e di repressione, la perfetta macchina di amministrazione e di somministrazione del potere, che il regime della Ddr aveva instaurato. Lì bisogna sostare, in silenzio e in meditazione: nelle celle e negli uffici, negli spazi di contenzione e di tortura, e nei luoghi dove tutto veniva gestito con criteri di massima funzionalità. Una macchina di controllo quasi perfetta, la meglio organizzata tra tutti i Paesi del blocco orientale. Metodo sovietico ed efficienza tedesca: un’accoppiata formidabile. Quella società era strutturata da un’architettonica della sorveglianza basata su metodi scientifici e su procedure rigorosamente verificate, il tutto sotto l’occhio onnipervasivo della Stasi. Le maglie di quel sistema erano fitte, per bloccare anche la minima dissidenza. Lo scopo era incutere paura, il terrore di essere scoperti in comportamenti o anche solo in espressioni contrari alle regole del regime. Lo strumento e al tempo stesso la finalità di tutto il meccanismo era il controllo.
Con una sorta di doppio cieco sociale, esso si riproduceva in modi sempre più indecifrabili e segreti; il mistero che circondava la sua immagine si alimentava fino a farne un’entità mitica. L’esistenza delle persone era trasfigurata, disumanizzata in un duplice senso: degenerata era l’ottica con cui la Stasi, che era il vero centro pensante e decisore dello Stato, concepiva le persone, meri oggetti al servizio della causa comunista; deformata era la psicologia delle persone stesse, la cui preoccupazione vitale primaria era quella di guardarsi le spalle per proteggersi dalle spie. Con il passare degli anni, l’ansia iniziale si era cronicizzata, diventando sottomissione per la sopravvivenza. Nel sistema non c’erano falle, tranne il sistema stesso, ovvero: la struttura di controllo che il sistema aveva prodotto era tanto capillare, tanto complessa, tanto maniacale che avrebbe potuto implodere per le sue stesse complicazioni. La burocratizzazione della sorveglianza era portata a limiti estremi, a un parossismo che poteva distruggere l’intero sistema. E così, almeno in parte, fu.
Ben lungi però dall’essersi estinta, a trent’anni dall’abbattimento del Muro e dal crollo dell’Unione Sovietica che ha trascinato con sé i regimi satelliti, l’ideologia comunista è ancora vegeta e continua ad intossicare il mondo e l’Occidente in particolare. Se sono mutate le forme di questo avvelenamento mentale e sociale, la sua sostanza è rimasta intatta, sempre distruttiva e potenzialmente letale. La celebrazione della caduta del Muro, dunque, non significa soltanto festeggiare la chiusura di una pagina orribile della storia contemporanea e l’avvento di una stagione di libertà per i tanti popoli europei oppressi da quell’infame sistema totalitario, ma deve anche essere una commemorazione dei milioni di vittime che quel sistema ha disseminato nei Paesi sotto il suo dominio, e deve altresì esprimere un appello affinché quel totalitarismo venga definitivamente bandito dalla civiltà politica, a qualsiasi latitudine.
Un ricordo che perciò dev’essere anche un monito, analogo a quello usato per il nazionalsocialismo: mai più. Il problema è che questo ammonimento non viene riconosciuto e accolto da larghi strati degli opinion makers e quindi dell’opinione pubblica. Il “mai più” vale contro il nazismo, ma non se rivolto al comunismo. Non sono bastati i cento milioni di morti ammazzati da quest’ultimo nel corso dei decenni; non è bastata la catastrofe culturale e politica del Sessantotto, il disastro sociale ed economico di tutte le esperienze comuniste (tranne, per il momento almeno, la Cina, in cui però il successo economico viene pagato a caro prezzo sul piano della società civile); non è bastata la risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 che equipara nella memoria storica i due totalitarismi. Se proviamo oggi ad applicare il “mai più” al comunismo, vediamo alzarsi non solo il sopracciglio dei raffinati intellettuali diretti e però ben mascherati eredi di quella ideologia, ma anche il fuoco di sbarramento dei grandi media e del variopinto mondo dello spettacolo, in un profluvio di arzigogoli argomentativi uniti da una tesi tanto cinica quanto sadica: l’Unione Sovietica e gli altri regimi hanno applicato male una dottrina buona, che non deve dunque essere abbandonata. Una tesi che per un verso salva l’idea comunista addossando la colpa del fallimento a coloro che l’hanno realizzata (il “socialismo reale”, appunto, per distinguerlo da quello ideale, che però è irreale, tanto è anti-umano), e per un altro irride i milioni di morti e perseguitati dai vari regimi: li ha uccisi la prassi comunista, non la teoria. Come dire: sono morti per un errore di tiro, non perché la teoria li voleva morti. Cinismo: i fini vanno perseguiti con ogni mezzo, anche il più abominevole, e soprattutto non vanno discussi, perché sono stati fissati dal dogma ideologico. Sadismo: le uccisioni fanno parte dei mezzi e quindi servono anch’esse al conseguimento dei fini, e perciò i morti vanno minimizzati e la loro memoria derisa. L’essere stati uccisi è per voi un po’ doloroso, ma siete serviti alla superiore causa della società comunista.
E si potrebbe continuare a lungo con queste oscene litanie, con questi cavilli a difesa dell’indifendibile, che si condensano in una tesi sostanzialmente apologetica, espressa da una nota docente italiana: “La corruzione di un progetto non è il progetto: il comunismo era un umanismo di giustizia sociale”. E così il “mai più” si stempera in un “riproviamoci”, e poi ancora di nuovo, perché una volta affermato il principio secondo cui l’idea comunista era buona, ogni sua realizzazione potrà eventualmente essere ritenuta inadeguata all’idea, che dunque dovrà prima o poi concretizzarsi in modo adeguato. Questa è non solo la legittimazione di un’idea abominevole, ma anche la premessa per riprodurre i suoi disumani esperimenti sociali e quindi per ripetere gli scenari criminali delle uccisioni di massa o anche soltanto di singole persone.
Così si presenta dunque il fronte avverso a una condanna definitiva e radicale del comunismo, un fronte teoricamente agguerrito ed eticamente corrotto (evoluzione logica del politicamente corretto). Proprio perciò si dimostra la necessità (e anche l’urgenza, direi) di un processo storico, politico, culturale ed etico all’idea e non solo alla realtà comunista, come voleva il compianto amico Vladimir Bukovskij e come reclama l’Appello per una Norimberga del comunismo che insieme abbiamo redatto e lanciato lo scorso anno.
Sappiamo bene ciò che il Muro rinchiudeva, ma stiamo dimenticando che quel mostro può sempre ripresentarsi, con forme esteriori diverse, in ogni luogo. Oggi il mainstream culturale tende infatti a ricordarne la storia ma a occultarne le idee. Relativizzare, ridimensionare, minimizzare: queste sono le parole chiave. Per contrastare questa tendenza e far emergere la verità della storia, è necessario oggi invece ricordare e riflettere. Ricordare che dietro alla cortina di ferro c’era un mondo sequestrato da una ideologia che non solo negava la libertà, ma era anche essenzialmente anti-umana. Se si dimentica questo aspetto costitutivo della visione comunista della società e della vita, si svilisce la memoria del dramma civile che essa aveva generato, e si rischia al tempo stesso anche di spianare la strada per intollerabili ritorni di quegli orrori, forse non nelle medesime forme di regime statuale e con modalità magari meno sanguinarie ma non meno terribili e odiose. Oggi, il ricordo di quell’immenso gulag che è stata l’Europa Sovietica è custodito da numerosi musei e istituti di ricerca, e dalla consapevolezza diffusa che si trattava di un sistema oppressivo e inaccettabile, ma quella memoria è anche spesso minacciata dal tentativo di stendere l’oblio sia sui genocidi, sia sull’essenza criminogena dell’ideologia che li causò.
A trent’anni di distanza, le strutture di quell’ideologia sono, nonostante l’evidenza delle macerie politiche, sociali e morali che essa aveva prodotto, ancora attive, forti e dispotiche sul piano culturale e mediatico. Il comunismo infatti non è stato seppellito dalle rovine del Muro, non è morto con il crollo dei suoi regimi, ma sopravvive in una varietà di forme e di luoghi, in una serie di metamorfosi che, come mutazioni di un virus, continuano ad aggredire i corpi sociali e i cervelli degli individui. Se trascuriamo questa persistenza, siamo esposti alla medesima infezione sotto inedite forme. Se ci sfugge che l’essenza del comunismo è una forma di crimine contro l’umanità, e se dimentichiamo che il nucleo fondamentale di quel crimine è il gulag, siamo pronti per un medesimo massacro sotto nuove spoglie.
La parola gulag è il simbolo non solo degli eccidi, ma anche di quel dittatoriale controllo sulla vita degli individui e delle società che l’ideologia comunista ha esercitato e continua ad esercitare ogni volta che conquista il potere statale. Certa storiografia insinua e certi inqualificabili personaggi continuano impunemente a raccontare che il gulag era un mezzo necessario per raggiungere un fine positivo. No, il gulag non è un incidente nel percorso di salvezza dell’umanità dalla barbarie del capitalismo al paradiso del comunismo, ma è congenito alla struttura teorica di quest’ultimo, nella quale fini e mezzi formano un’identità inscindibile. Il gulag non è un errore nella prassi, bensì un orrore nella teoria; è la conseguenza naturale della premessa dottrinale; è un fine in se stesso: il comunismo può realizzarsi soltanto come gulag.
Il cosiddetto “socialismo reale” non è un aborto della teoria marxista-leninista, ma la forma politico-statuale con la quale essa si concretizza. Perciò, la condanna del socialismo reale, cioè dell’Unione Sovietica e di tutti quegli Stati che anche dopo il crollo dell’Urss hanno continuato a praticare quella teoria, non raggiungerà l'indispensabile efficacia finché non implicherà la condanna del socialismo teorico e il costante monitoraggio delle sue ricomparse. Solo così si potrà, per il momento almeno a parole, affermare “mai più”. La carica del virus comunista è dimostrata non tanto dai Paesi che si ispirano a quella ideologia, in verità non molti e, a parte la Cina (che è un problema a sé e in sé), poco rilevanti sul piano economico, ma soprattutto dai molto più diffusi movimenti sovversivi o rivoluzionari, che contengono un altissimo potenziale di pericolosità dovunque si installino. In essi si mostra l’essenza di questo virus ideologico, come una forma di vita aliena rispetto allo spirito occidentale, un organismo che è stato rigettato dal corpo sociale e civile dell’Occidente ma che tuttavia riesce ancora ad attecchire e, a certe condizioni, ad imporsi. E oggi esso riesce a replicarsi grazie anche alla debolezza dell’Occidente, il quale non ha mai voluto fare definitivamente i conti con l’ideologia che lo nutre.
Oggi il nuovo terreno di azione del comunismo è l’America. Da circa un anno gli Stati Uniti sono investiti da questa ondata sovversiva di ispirazione social-comunista, che sta però riscuotendo il maggiore successo in America Latina. Santiago del Cile e Buenos Aires, che si affiancano ora a Caracas e a Cuba, sono le nuove piazze in cui si riversa questo movimento internazionale, con bottini cospicui come la vittoria dell’estrema sinistra alle elezioni dello scorso anno in Argentina e la vittoria della sinistra unita al referendum per modificare la Costituzione in Cile. Tamburi di guerra per tutto il continente, segnali inquietanti per tutto l’Occidente. In questo velocissimo turbinio sovversivo latinoamericano, la Cuba castrista sembra una macchina a vapore, sempre totalmente comunista, ma priva di slancio, un motore che, per usare la vecchia espressione di Enrico Berlinguer riferita all’Urss, “ha perso la spinta propulsiva”. I nuovi movimenti, vigorosi pur nella loro abiezione, traggono sostegno materiale dal regime cubano, e a loro volta restituiscono energia all’imbolsito castrismo, e lo stesso accade con il Venezuela, in una dialettica rivoluzionaria che ripropone il vecchio nucleo ideologico su nuovi registri espressivi, la cui pericolosità è cresciuta proprio perché parzialmente dissimulata (e sostanzialmente spalleggiata dal politicamente corretto che domina in Occidente). Bene ha fatto dunque il partito spagnolo Vox, che attraverso la sua Fundación Disenso ha promosso un’iniziativa “per contrastare l’avanzata comunista nella iberosfera”, dando vita alla Carta di Madrid, che segue l’Appello per una Norimberga del comunismo, che esattamente un anno fa, a partire da Roma (Senato della Repubblica), è stato presentato in varie città tra cui anche Madrid.
di Renato Cristin