venerdì 2 ottobre 2020
Domani Matteo Salvini comparirà davanti al Giudice dell’udienza preliminare (Gup) di Catania che dovrà deciderne il proscioglimento o il rinvio a giudizio per il caso della nave “B. Gregoretti” (identificativo CP 920) della Guardia costiera.
Il leader della Lega, nella qualità di ministro dell’Interno all’epoca dei fatti contestati, è accusato di sequestro di persona aggravato ai danni dei 135 immigrati trasferiti dalle acque del Mediterraneo prima al porto di Catania e poi a quello di Augusta dalla “Gregoretti”. La vicenda risale al luglio dello scorso anno e copre un arco temporale di 5 giorni: dal 27 luglio, data della formalizzazione della richiesta del Pos (place of safety) da parte del Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo della Guardia costiera al Ministero dell’Interno per lo sbarco dei 135 immigrati presenti sulla Gregoretti, alle 16,53 del 31 luglio quando sono terminate le operazioni di sbarco delle persone recuperate nelle operazioni di soccorso.
Il procedimento è stato condotto dalla sezione del Tribunale dei ministri della città etnea che ha chiesto e ottenuto dal Senato l’autorizzazione a procedere contro l’indagato, nonostante il parere negativo della locale Procura della Repubblica che, invece, aveva chiesto l’archiviazione del fascicolo. Il senatore Salvini, in vista dell’udienza di domani, ha messo in rete la memoria difensiva depositata presso il Gup dalla quale si evincono le prove della regolarità del suo comportamento e dell’insussistenza dell’accusa. Per il reato contestatogli, qualora dovesse essere giudicato comunque colpevole, il “Capitano” rischia una condanna fino a 15 anni di reclusione. Per quanto sarebbe interessante disquisire di materia processuale, lasciamo che siano giudici e avvocati a farlo. In questa sede dobbiamo porci una domanda: le azioni per le quali è stato indagato Salvini richiedono un giudizio politico o un processo penale? La questione non è marginale perché attiene al corretto funzionamento della democrazia nel nostro Paese. Al quesito avrebbe dovuto rispondere l’organismo competente nella sede deputata: il Senato. Che lo ha fatto. Ma come? La legge costituzionale n. 1 del 1989, che disciplina i procedimenti penali a carico del presidente del Consiglio e dei ministri, pone a difesa dell’azione di governo la garanzia di un’esimente speciale: “Il Presidente della Camera competente può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”.
I membri della maggioranza hanno avuto l’opportunità di rimarcare un principio che è a fondamento della separazione dei Poteri nello Stato di diritto: la giurisdizione non deve interferire nelle scelte della politica. Per aderire alla ratio della legge costituzionale sarebbe stato necessario avere un Parlamento composto di personalità di spessore, non di politicanti da quattro soldi qual è la buona parte dei deputati e dei senatori che affollano le aule parlamentari. Politici con la P maiuscola avrebbero dovuto ribadire la differenza tra ciò che è legittima diatriba partitica e ciò che è rispetto dei cardini del nostro sistema istituzionale. Purtroppo non l’hanno fatto. E, a sprezzo del ridicolo, hanno usato la possibilità di mandare a processo il nemico politico per appagare miopi interessi di bottega. Non hanno valutato quanto danno stessero arrecando alla democrazia giungendo, con il voto, a sostenere che l’azione del ministro dell’Interno, benché opinabile, non avesse risposto alla tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o al perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo, ma che fosse stato l’appagamento di un imprecisato indebito interesse personale.
Quelli della galassia della sinistra egemonizzata dal Partito Democratico hanno votato l’autorizzazione per riflesso condizionato. Nella storia della sinistra sono state scritte numerose pagine sull’uso dell’arma giudiziaria per eliminare il nemico politico. Che giochino sporco può non piacere, ma ci sta. Ciò che però è insopportabile di questa sinistra è l’ipocrisia dei suoi dirigenti quando si spacciano per sinceri garantisti. Non lo sono e ogni volta se ne presenti l’occasione puntano sul soccorso dei giudici per truccare le carte del gioco democratico.
I Cinque Stelle, poi, sono un caso clinico. Meschini e infantili al punto da usare l’arma dell’autorizzazione a procedere per punire Salvini dello “sgarro” fattogli facendo cadere il Conte 1. Vigliacchi, bugiardi, rancorosi, i grillini non si sono fatti scrupolo di pugnalare alla schiena l’ex alleato quando tutti gli atti documentali dimostravano il loro pieno coinvolgimento e sostegno all’azione intransigente del ministro Salvini sul contrasto all’immigrazione illegale e dopo che l’anno precedente avevano votato contro l’autorizzazione a procedere a carico dello stesso Salvini, chiesta dal Tribunale dei ministri di Catania per una vicenda del tutto analoga a quella della Gregoretti.
Questa politica ha colpe gravissime nell’aver causato la degenerazione della qualità della democrazia. Ma la magistratura non è esente da responsabilità. È dai tempi di Mani Pulite che assistiamo a una costante tracimazione del potere giudiziario nel corretto andamento delle dinamiche istituzionali. Senza fare la cronistoria di tutti i casi in cui tale interferenza sia stata evidente e abbia prodotto effetti distorsivi sulla tenuta delle istituzioni, è sufficiente richiamare la motivazione con la quale il Tribunale dei ministri di Catania ha chiesto al Senato l’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro dell’Interno. Dall’esame del testo si scorge la pretesa dei giudici di voler subordinare l’azione di governo agli indirizzi interpretativi delle norme ordinamentali indicati dai giudici. Se solo il procedimento aperto a Catania dovesse andare avanti e tradursi in processo penale si creerebbe un micidiale precedente per comprimere la funzione costituzionalmente sancita del decisore politico. Immaginate cosa accadrebbe se ogni provvedimento assunto dal Governo dovesse ricevere la valutazione di merito dal potere giudiziario: l’Italia non sarebbe più una democrazia. Domani sul Gup di Catania grava una grande responsabilità: mettere fine a una farsa prima che si trasformi in tragedia. In ballo c’è più della sorte personale di un singolo politico. Salvini sbaglia nel cercare di farne un fenomeno mediatico. Sbaglia a sostenere, con enfasi retorica, che domani sul banco degli imputati non sarà solo ma con lui ci sarà il popolo italiano. Se la mette su questo piano spinge il Gup su un piano metagiuridico, lo stimola ad entrare in sintonia con quei magistrati che, sulla scia del pensiero esplicitato dal giudice Luca Palamara nel corso di un’agghiacciante conversazione telefonica con un collega intercettata dagli inquirenti, dicono a mezza voce: Salvini ha ragione, ma bisogna attaccarlo. Spetta al presidente della sezione del Gip/Gup del Tribunale di Catania, Nunzio Sarpietro, tenere la barra dritta mettendo le cose al loro posto. È noto che il dottor Sarpietro sia un iscritto a Magistratura democratica, la corrente di sinistra della Magistratura, ma è parimenti noto che goda fama di essere tecnicamente preparato e di grande levatura morale.
Il mugnaio Arnold della storia narrata nel libro ll Regno di Federico di Prussia, scritto da Enrico Broglio nel 1880, credeva nella giustizia e per vedere riconosciuti i suoi diritti, violati dai soprusi di un nobile, si diceva certo che “ci sono de’ giudici a Berlino”. Oggi nei panni del mugnaio Arnold della storia ci sono gli italiani che si domandano: ci sarà un giudice a Catania?
di Cristofaro Sola