venerdì 4 settembre 2020
Sulla proroga dei vertici dei Servizi segreti il premier Giuseppe Conte l’ha spuntata ma ha rischiato grosso. Merito delle opposizioni? No, del fuoco amico partito dall’interno del Movimento cinque stelle. Incredibile ma vero. Con un emendamento al Decreto sull’emergenza Covid-19, in fase di conversione in legge alla Camera dei deputati, 50 parlamentari pentastellati hanno provato a cassare la norma fortemente voluta dal premier con la quale, in deroga ai rigidi limiti temporali di mandato stabiliti dalla Legge 3 agosto 2007 n. 124 di riforma del Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, si consente la permanenza degli attuali vertici dei Servizi per ulteriori quattro anni nei ruoli attualmente coperti. Questione delicatissima che gli sbandati a cinque stelle, in un momento di imprevista lucidità, avrebbero voluto togliere dalle avide mani di Conte e riportare sotto la giurisdizione del Parlamento, come sempre dovrebbe essere in uno Stato democratico. L’iniziativa ha mandato in bestia Palazzo Chigi che è corso ai ripari.
La presa del premier sull’apparato di sicurezza della Repubblica è stata salvaguardata grazie alla richiesta di fiducia posta dal Governo sull’intero Decreto in discussione. Il salvataggio in corner della norma ha comunque lasciato un segno nei già precari equilibri su cui regge l’Esecutivo. Se è vero che l’emendamento grillino, con la mossa del Governo che ha blindato il decreto, è diventato carta straccia, è altrettanto vero che ieri l’altro alla chiama sul voto di fiducia 28 parlamentari del gruppo cinque stelle non si sono presentati all’appello. Siamo alle avvisaglie di una prossima scissione del Movimento? Qui non c’è da inventarsi alcun retroscena, la crisi profonda del grillismo è squadernata alla luce del sole. Viene difficile credere che l’iniziativa dell’emendamento sia stato solo un gioco di palazzo, uno sgambetto di Luigi Di Maio a Giuseppe Conte. Troppo sofisticata la manovra per essere farina del sacco dell’astuto giovanotto di Pomigliano d’Arco. Per quanto ci si sforzi di scovare ragionamenti complessi dietro talune manovre parlamentari la realtà è molto più disarmante di quanto si immagini. Il fuoco amico è figlio dello stato confusionale in cui il Movimento è sprofondato. Senza solide radici ideali, senza una cultura politica di riferimento, senza una visione organica di società, il minimo che potesse accadere a un gruppo di occasionali praticanti delle istituzioni democratiche era di farsi lo sgambetto da soli.
Qualcuno direbbe che sbagliando s’impara. Ma non è questo il caso. Non siamo in presenza di un banale peccato d’inesperienza. Il tentativo di frenare lo strapotere di Giuseppe Conte è la spia di un disagio che scuote molti rappresentanti del Movimento. I portavoce del popolo avrebbero voluto contare di più nelle scelte dei governi targati cinque stelle. Invece, sono stati demansionati per non disturbare il manovratore. Oggi la parola d’ordine nel Movimento è: Zitti tutti altrimenti si va a casa. C’è chi si ostina a definire i cinque stelle populisti. Sbagliato. Il paradigma introdotto dall’anomalia pentastellata è la rappresentazione vivente di un partito cesaristico nel quale uno comanda e gli altri si adeguano. Riguardo al contenuto dell’offerta politica grillina, la definiremmo qualunquista. Ciò che non avremmo immaginato anni orsono è che il “Cesare” del Movimento non fosse Beppe Grillo ma che lo scettro venisse consegnato a Giuseppe Conte, personaggio incolore e niente affatto carismatico. Gli anni passati a litigare, tra destra e sinistra, sul riassetto in senso presidenzialista dell’architettura istituzionale del Paese sono finiti al macero, superati dal colpo di mano fattuale dell’inquilino di Palazzo Chigi.
Una buggeratura per la sinistra che per tre decenni ha campato denunciando inesistenti derive autoritarie del berlusconismo e oggi si accontenta di reggere il moccolo all’accentratore Giuseppe Conte. L’escamotage per assicurare al premier il controllo dei Servizi anche in un tempo successivo alla fine naturale dell’odierna legislatura è solo la punta dell’iceberg della torsione autoritaria del Conte bis. La decisione di prorogare i poteri straordinari al capo del Governo col pretesto di un’emergenza sanitaria, che obiettivamente non c’è, appartiene al medesimo disegno. Come sono altrettanti segnali di involuzione del processo democratico la superfetazione dei Dpcm (i Decreti insindacabili del presidente del Consiglio dei ministri) fuori del perimetro dello stato d’eccezione e i continui ricorsi alla fiducia nella conversione in legge dei decreti varati dal Governo. Per un bizzarro accidente della Storia ciò accade in concomitanza con la campagna referendaria sul taglio dei parlamentari. Al punto in cui siamo, nella visione cesarista, i cinque stelle avrebbero potuto votare l’abolizione del Parlamento, da loro demagogicamente dipinto come un lupanare, un luogo del malaffare.
Per risolvere definitivamente il problema dei costi della politica quale miglior cosa che cancellare le istituzioni rappresentative della sovranità popolare? “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”. Lo disse, il 16 novembre 1922, Benito Mussolini alla Camera dei deputati nel presentare la lista dei ministri del suo primo Governo. Ma sono parole che starebbero benissimo in bocca a Giuseppe Conte perché è esattamente ciò che lui sta facendo alla nostra democrazia da quando, con la scusa di esorcizzare l’arrivo al potere del lupo cattivo Matteo Salvini, ha ridotto il santuario laico della sovranità popolare an un bivacco di manipoli. E questo non lo dice l’opposizione, ma lo dimostrano quei parlamentari grillini che ieri l’altro hanno provato a mettere un bastone negli ingranaggi della macchina dell’autoritarismo in grisaglia e pochette di Giuseppe Conte. Siamo messi male. Governati da un incapace che le sbaglia tutte ma che riesce a restare inchiodato alla poltrona come fosse roba sua da sempre perché glielo consente l’assordante silenzio del Quirinale nell’avallare tutte le picconate inferte alla funzione parlamentare. Chi come noi ha sul groppone troppe primavere, e altrettanti inverni, di allarmi democratici veri o fasulli ne ha uditi tanti.
Dal “Piano solo” (1964) del comandante dell’Arma dei carabinieri, generale Giovanni De Lorenzo, alla strategia della tensione, alle bombe nelle banche e nelle piazze degli anni Sessanta, alle Brigate Rosse, ai Nar neofascisti, ai carri armati del golpe bianco (mai dimostrato giudiziariamente) del monarchico-liberale Edgardo Sogno e del repubblicano Randolfo Pacciardi degli anni Settanta, a Licio Gelli con il suo “Piano di rinascita democratica”, alla P2 e ai complotti massonici cucinati in tutte le salse degli anni Ottanta e Novanta. E c’è stata anche la notte di “Tora-Tora”, dal nome in codice del golpe organizzato il 7 dicembre 1970 dal vulcanico principe Junio Valerio Borghese con il contributo decisivo delle guardie forestali e annullato in corso di esecuzione. Tante chiacchiere, tanto fumo ma non è mai accaduto nulla di serio. La democrazia, si è detto, è stata più forte dei suoi nemici. E oggi un azzimato avvocato di provincia, tra una tartina a Villa Pamphilj, una photo-opportunity con Angela Mekel e una posa in stile Vanity Fair con la fidanzata, sta riuscendo là dove non sono riusciti i tanti mancati golpisti della storia repubblicana: conculcare la democrazia e opprimere la libertà degli italiani. È proprio vero ciò che si dice a Napoli, che ‘o deritto more sempe pe’ mano d’o fesso. Pensavamo di essere gente sveglia e invece ci siamo fatti raggirare da un signor nessuno col physique du rôle del sagrestano a San Giovanni Rotondo, ma con la stoffa del tiranno ben nascosta sotto la fodera del moderato.
di Cristofaro Sola