venerdì 24 luglio 2020
Gli storici investigheranno come sia stato possibile che un gruppo di sprovveduti, guidati da un comico dedito più al turpiloquio e allo scherno che all’arguzia e all’ironia, abbia conquistato il Parlamento e il Governo con un libero voto popolare. Purtroppo la democrazia è anche questo: un abbaglio della sovranità che, seppure debba esercitarsi nelle forme e nei limiti della Costituzione, non contempla all’origine né il modo né la misura della selezione ideale degli eletti. La democrazia non garantisce la qualità della rappresentanza. L’elezione in sé non migliora i caratteri dei rappresentanti. Il popolo sceglie chi vuole, salvo pentirsene per resipiscenza oppure perché trascinato alla rovina. Ma quasi mai per tempo. Uno dei punti pericolosi nel funzionamento della democrazia sta nel fatto che il rappresentante, già varcando la soglia di Montecitorio e Palazzo Madama, si convince che, essendo stato eletto, è solo perciò pure un eletto.
Il grillismo rappresenta la quintessenza del fenomeno. Il fondatore, leader effettivo, autoproclamatosi “L’Elevato”, governa dall’alto, appunto, la sua truppa, nella quale primeggiano gli ultimi della classe che egli ha messo in cattedra all’università con la bacchetta magica. Poiché per tutti costoro non conta né ciò che dicono né ciò che fanno, ma ciò che serve, la coerenza personale e le promesse politiche non hanno il benché minimo significato. Persino il loro maggior successo, il reddito di cittadinanza, con il quale pretesero di abolire la povertà e creare occupazione, è diventato un clamoroso insuccesso perché ha dato un impiego soltanto ai “navigator” che invece avrebbero dovuto trovare un lavoro ai disoccupati. Hanno iniziato a governare andando in ufficio con l’autobus. Poi si sono acconciati alle auto blu e ai jet di Stato. Alla prova del fuoco hanno preso a distinguersi in ortodossi e no, standosene tuttavia al calduccio delle cariche e distribuendo prebende ad amici degni di loro. La distinzione però è una simulazione. Una delle loro tante imposture, che non sono occasionali tattiche, ma l’essenza del grillismo, una studiata doppiezza negli uomini e nelle azioni.
I campioni di questo machiavellismo al pesto genovese sono, non per nulla, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, insediati alla testa dell’ala governista e dell’ala movimentista del grillismo: gruppi fluttuanti e fittizi, parimenti soggetti al placet dell’Elevato anziché dei loro capi, suoi delegati e da lui “garantiti”, infatti. L’uno e l’altro inaffidabili perché intercambiabili: uno vale uno. Quelli di bocca buona, abbondanti nella neomaggioranza e nell’opposizione nostalgica, coltivano l’illusione di giocare Di Maio contro Di Battista e viceversa, mentre costoro giocano per se stessi. Non sono diversi (per taluno addirittura contrapposti) perché il primo pare discostarsi dal secondo. La loro concezione politica è rimasta invece uguale al passato, basata sull’evanescenza e l’estemporaneità, sulle capriole, i salti in avanti e all’indietro, gli avvitamenti, loro vanto e virtù. Di Maio è un adattato, che mantiene Di Battista nella riserva. Di Battista è un accomodato, che lascia a Di Maio la prima linea. Entrambi indossano una livrea che li unisce. Adepti dello stesso guru, che ne alimenta gli opportunismi, essendo gli uni e l’altro privi di coerenti convinzioni democratiche e liberali principi dichiarati. Senza i quali la politica costituisce il camuffamento della pura e semplice gretta ambizione personale, una stolta passione deleteria per l’interesse nazionale. Come vedono tutti, fuorché loro.
di Pietro Di Muccio de Quattro