lunedì 20 luglio 2020
Lo ricorderemo a lungo questo fine settimana di mezza estate. Se non siamo alla certificazione di morte celebrale dell’Unione europea, poco ci manca. Per decenni le leadership hanno raccontato balle sul comune afflato europeo. È stata costruita una mitologia unionista dell’Europa che oggi crolla sotto i colpi degli egoismi nazionali. Non saremo mai una cosa sola. Lo ha confermato l’andamento del Consiglio dei capi di Stato e di Governo convocato a Bruxelles. Dopo quattro giorni di scontri e di accuse reciproche non si è ancora giunti a una soluzione unitaria sul piano vasto di rilancio economico messo a punto dalla Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen. Nelle intenzioni dei proponenti “Next Generation Ue” avrebbe dovuto essere il “D-Day” della nuova Unione coesa e solidale, invece ne è stata la “Waterloo”. Presumibilmente, entro questa sera uno straccio di accordo si troverà, per salvare la faccia dei poco commendevoli protagonisti. Il primo dei quali è il premier italiano che ha un problema in patria: restare alla guida del Paese. È facile immaginare che qualsiasi sia la conclusione del vertice, Giuseppe Conte se la venderà come grande successo personale.
Tuttavia, le parole dette in questi giorni restano. E sono quelle voci dal sén fuggite a dare l’interpretazione autentica di un sentimento diffuso nell’Unione di cui i paletti posti con molta durezza dai cosiddetti Paesi “frugali” rappresentano la punta dell’iceberg del malessere. Il mainstream dei politicamente corretti se la prende con i sovranisti per negare la realtà che racconta di un continente dove sono tutti sovranisti nel senso del perseguimento dell’interesse nazionale a prescindere dalle ideologie e dalle culture comuni di appartenenza. C’è un macigno gigantesco che ostruisce la strada della coesione comunitaria: ci sono Stati che, col pretesto di non fidarsi dei partner del Sud Europa, praticano un ottuso opportunismo bottegaio totalmente incompatibile con la visione di un’Unione soggetto politico unitario capace di confrontarsi alla pari con le altre potenze globali. Un’Europa così è condannata a rimanere un’espressione geografica. Prendiamone atto una volta per tutte e cominciamo seriamente a domandarci come venirne fuori. Vi sono due ordini di problemi da affrontare. Uno attiene all’architettura istituzionale dell’Unione che com’è oggi non può funzionare; l’altro riguarda la tempestività di una decisione che aiuti i Paesi in difficoltà ad affrontare le conseguenze economiche della pandemia. Per il primo ordine di problemi occorreranno tempi lunghi e una rivoluzione morale perché tutti i partner si convincano a cedere sul principio dell’unanimità delle decisioni che a trattati vigenti assegna un grande potere d’interdizione anche ai più piccoli Stati.
Un insieme di collettività ancorate alla forma democratica deve trasferire il livello della decisione nelle sedi elettive dove si materializza la volontà popolare delle comunità territoriali dell’Unione. Quindi, al Parlamento europeo. Fin quando tutti i poteri saranno nelle mani del Consiglio dei capi di Stato e di Governo, l’Unione europea resterà un bluff geopolitico. A riguardo del secondo ordine di problemi, cioè il “che fare?”, bisogna abituarsi all’idea di farcela da soli a cavarci dai guai. È scontato che qualsiasi “papello” infarcito di buoni propositi venisse fuori questa sera dalle conclusioni del Consiglio europeo, presenterebbe tali e tante farraginosità attuative che alla fine della fiera gli aiuti effettivamente erogabili saranno poca cosa. Allora, se la maggioranza dei Capi di governo non vuole che finisca a carte quarantotto, perché avere il mercato unico funzionante conviene a tutti, deve accettare che la Banca centrale europea (Bce) prosegua nel “Pandemic Emergency Purchase Program (Pepp)” con l’acquisto illimitato di titoli del debito sovrano dei Paesi Ue messi in difficoltà dalla pandemia per 1.350 miliardi di euro.
All’Italia basta quello strumento di protezione, in combinazione con il prolungamento della sospensione del Patto di stabilità, per risollevarsi a costi sostenibili. Di là dalle chiacchiere fasulle su presunte inaffidabilità etiche degli italiani, il problema che si pone ad ogni Governo nostrano, a prescindere dal colore politico, è di tenere in piedi una funzione pubblica adeguata agli impegni geostrategici che l’Italia ha dalla fine della Seconda Guerra mondiale. La sua collocazione nel fronte delle democrazie occidentali non ha portato solo benefici ma ha comportato costi, talvolta molto onerosi. Gli impegni con gli alleati e la posizione geopolitica particolarmente sensibile nello scacchiere mediterraneo hanno dettato sacrifici e rinunce che non possono essere bollati con stupida miopia come sperperi di denaro pubblico. Non che la politica sovente non si sia resa responsabile di un cattivo uso delle risorse pubbliche. Tuttavia, l’esistenza di fattori patologici, ancorché gravi, nella dinamica del sistema non ne sminuisce o annulla l’inderogabilità.
Sono forse soldi buttati quelli spesi per finanziarie le missioni militari italiane all’estero? Chiedetelo alle popolazioni civili dei teatri di guerra, aiutate a sopravvivere dai nostri valorosi soldati. E i nostri alpini che in questo momento sono impegnati a proteggere i confini della piccola Lettonia dalla minaccia russa? Se è sperpero ce lo spieghi il signor Valdis Dombrovskis, lettone, che da Bruxelles fa le pulci ai nostri conti pubblici. Gli accordi con gli Stati Uniti sul “Joint Strike Fighter” prevedono che l’Italia acquisti 90 caccia bombardieri F-35. Il costo dell’operazione, spalmato negli anni, oscilla tra 13 e 14 miliardi di euro che andranno a gravare sul deficit di Bilancio. Se fosse per i finti pacifisti arcobaleno dovremmo stracciare i contratti. Sarebbe un bel risparmio di denari. Peccato, però, che l’Italia è parte di un’alleanza strategica che impone agli Stati aderenti di adeguare i propri apparati di difesa alle esigenze individuate dalla governance dell’Alleanza che, è bene ricordarlo, fornisce protezione militare ai suoi membri da ogni aggressione esterna.
Che si fa? Andiamo a Washington a dire che non ammoderniamo più la flotta aerea, che ci chiamiamo fuori dalla Nato perché ce lo comanda il signor Mark Rutte? Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz è sulla stessa lunghezza d’onda del collega olandese: non si fida dell’Italia. Teme che un’erogazione di fondi senza stretti controlli finisca per alimentare lo sperpero, perciò sarebbe negligente non chiedere all’Italia come abbia intenzione di spendere i denari ricevuti. Ora, si può anche considerare legittima la preoccupazione del giovane cancelliere austriaco, ma bisognerebbe mettersi d’accordo a monte su cosa si voglia intendere per modo corretto d’investire gli aiuti finanziari. Per il giovanotto viennese le priorità sono la tecnologia, la transizione verde e la rivoluzione digitale. Buon per lui, ma dove sta scritto che debbano essere anche le nostre? La crisi da Covid-19 ha generato un crollo del comparto turistico, del piccolo commercio e delle produzioni artigianali.
Settori che non c’entrano nulla con la digitalizzazione o la transizione ecologica. Che si fa se passa il principio del collegamento dei finanziamenti a interventi orientati al “green”? Ricominciamo a combattere per difendere il Made in Italy? E poi, cos’è “green”? Il diametro allungato delle vongole? Ce lo dica il premier austriaco quale debba essere la giusta dimensione del mollusco, così diamo il reddito di cittadinanza a qualche altro migliaio di nostri pescatori rimasti senza lavoro. Potremmo continuare, ma non occorre. Il punto nodale che i partner hanno lodevolmente portato alla luce a Bruxelles è uno solo: al momento l’Europa unita e solidale non esiste, a raccontarla così è un’impietosa bugia che non incanta nessuno. È la favola di Babbo Natale che dalla sua casa al polo Nord porta i doni con la slitta volante. Funziona finché si è bambini. Poi si diventa grandi.
di Cristofaro Sola