Giudici-funzionari o giudici-giuristi?

venerdì 17 luglio 2020


Mi dissocio. In genere, dal pensiero unico dominante. In particolare, qui ed ora, mi dissocio dall’iniziativa assunta dall’Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli che a partire da settembre darà il via al primo corso universitario a numero chiuso – non più di 60 studenti – destinato alla formazione di coloro che intenderanno tentare il concorso in magistratura. E ciò, come era da attendersi, fra il tripudio generale, soprattutto nell’unanime approvazione di tutti i benpensanti, politici, magistrati, osservatori, giornalisti, tutti contenti e pericolosamente soddisfatti di questa iniziativa.

Come sarà strutturato il corso?

Le tecniche di scrittura e argomentazione giuridica, le prove pratiche di “problem solving” di casi giuridici, gli approfondimenti speciali in diritto amministrativo, civile e penale con esami scritti e con una continua attenzione all’evoluzione giurisprudenziale, sono alcune tra le principali attività del nuovo percorso di studi. Potranno iscriversi trenta studenti provenienti dal triennio di studi del Suor Orsola e altri trenta selezionati con un bando di concorso aperto a tutti gli studenti di giurisprudenza delle università italiane che abbiano superato il primo triennio di studi possibilmente con particolari requisiti di merito. In cattedra, accanto ai docenti dell’ateneo ci saranno numerosi magistrati, il che rispecchia il metodo didattico che si vuole usare.

Tutto bene, dunque? Per nulla: tutto male, malissimo.

L’esatto contrario di ciò che si dovrebbe fare. Infatti, i giudici, come ho sempre detto, per esser davvero tali, hanno da assumere un solo ed unico ruolo: quello di “esperti d’umanità”.

Cosa complessa quanto necessaria e comunque del tutto estranea alla iniziativa di cui sopra.

Si capisce subito invece cosa verrà fuori da questa sorta di Accademia per aspiranti magistrati: un perfetto modello di giudice-funzionario. Infatti, questi sessanta aspiranti saranno per due anni presi in custodia dai loro docenti i quali, in buona misura, saranno magistrati in servizio da anni e perciò selezionati col metodo proprio delle correnti, che notoriamente hanno intriso di se, condizionandone l’assegnazione, ogni poltrona disponibile: e non si vede perché questo caso dovrebbe essere diverso.

Non solo. I giovani aspiranti saranno per forza di cose spinti a pensare, immaginare, criticare, vedere i problemi e a cercare di risolverli in modo tendenzialmente omogeneo, uniforme al “mainstream” accademico, secondo le indicazioni e gli esempi ricevuti dall’alto.

Insomma, verranno fuori degli ottimi giudici-funzionari, dotati di grandi conoscenze e muniti di risposte adeguate, come probabilmente si desidera che sia, ma certamente non dei giudici-giuristi.

E tuttavia, proprio di giudici-giuristi avremmo tutti estremo bisogno, di giudici che siano cioè imbevuti fino al midollo di una cosa che sembra sconosciuta e che nessuno si sogna neppure di nominare nelle Università – e figuriamoci nelle Accademie: il senso giuridico.

E ci sarebbe mestamente da aggiungere, “questo sconosciuto”. Notoriamente infatti nessuna istituzione e nessun docente si preoccupano di affinare e far lievitare negli studenti il senso giuridico, che non è affatto costituito dalla capacità di cercare le risposte ai quesiti giuridici, tutt’altro.

Il senso giuridico è invece da identificare nella capacità di porsi le domande e, in particolare, le domande giuridicamente corrette davanti ad una vicenda della vita che chiede di essere presa sul serio e governata da regole giuridiche.

Ed è ovvio, d’altra parte, che a farsi cogliere come preminenti sono le domande, ben prima delle risposte, per almeno due motivazioni.

Innanzitutto, perché se la domanda non è corretta, la risposta non potrà mai esserlo: chi erra nel porsi la domanda, ancor più sarà portato ad errare nel cercare la risposta ad una domanda sbagliata.

In secondo luogo, perché le risposte stanno già fra le brossure dei codici, nei testi di legge e dei decreti, nella enorme massa di norme che affollano il palcoscenico regolativo italiano. Le domande non si trovano invece da nessun parte, essendo inconcepibile immaginare un codice delle domande.

In realtà, le domande possono ritrovarsi soltanto nella mente, meglio ancora, nella sensibilità del giurista e tanto più costui avrà esperienza della vita, tanto più sarà in grado di porsi le domande corrette.

Ecco perché non abbiamo che farcene di giudici-funzionari – imbottiti di conoscenze giuridiche enciclopediche e ramificate, cioè gravidi di risposte – perché ciò che occorre davvero e in via preliminare è la sensibilità giuridica che induca il giudice-giurista a porsi le domande corrette a partire dalla vita e non certo dai codici.

Ed ecco perché prima accennavo alla necessità che i giudici siano “esperti d’umanità”: perché solo chi lo sia sarà in grado di scorgere le domande da porsi, per poi ricercare le risposte giuridicamente corrette.

Ne viene che più che di omogeneizzanti e verticistiche Accademie, ci sarebbe bisogno che gli aspiranti giudici perlustrassero la vita in tutti i suoi aspetti e che perciò – secondo il monito di Leonardo Sciascia – fossero condotti a trascorrere una settimana a Poggioreale o all’Ucciardone ( a loro scelta); o che dedicassero alcuni giorni a vedere dall’interno cosa si fa presso un sindacato o presso una impresa artigiana o, ancora, cosa vuol dire amministrare una società per azioni o perfino un condominio o una bottega che venda spilli e bottoni.

Stranezze? No. Semplice senso della vita: il miglior viatico per la sensibilità giuridica. Quella che nessuna Accademia insegnerà mai.


di Vincenzo Vitale