lunedì 15 giugno 2020
Degli Stati generali non c’importa nulla. Non è a Villa Pamphilj che si decidono le sorti dell’Italia. Al più, nella splendida cornice della villa seicentesca è in gioco la carriera politica di Giuseppe Conte. La notizia destinata a segnare, in negativo, il futuro del Paese non sta nelle parole sprecate a Villa Pamphilj ma viene dal teatro libico.
I media danno conto dell’accordo raggiunto tra Ankara e Tripoli per la concessione alla Turchia di due basi militari in vista del consolidamento della presenza “ottomana” nel Mediterraneo centrale. La fonte dell’informazione è il quotidiano filogovernativo turco “Yeni Şafak” secondo cui i siti strategici concessi dal Governo di Tripoli alla Turchia sarebbero l’aeroporto di al-Watiya nell’area estremo-occidentale della Tripolitania, a ridosso del confine con la Tunisia, e la base navale del porto di Misurata.
Se a Roma avessimo un Governo degno di questo nome oggi vi sarebbero le bandiere a mezz’asta sugli edifici pubblici tanto la notizia compromette gli interessi nazionali. Basta guardare una carta geografica. L’aeroporto di al-Watiya è a un tiro di schioppo dalle coste della Sicilia e dal complesso energetico di Mellitah di proprietà dell’italiana Eni in partenariato con la compagnia petrolifera libica (Noc). Stando alle indiscrezioni trapelate, la base sarà un hub per i droni e ospiterà aerei da trasporto, cacciabombardieri F-16 nonché mezzi di difesa aerea a corto e medio raggio (Uav/Siha), attualmente già impiegati sul campo nella guerra alle forze del generale Khalifa Haftar. A Misurata verrebbe installata una base navale avanzata della Marina militare turca.
Se non si è mandato il cervello all’ammasso dopo un decennio di devastazione della politica estera grazie alla sinistra al governo, si capirà tutta la gravità del cambio di scenario sull’uscio di casa. I turchi sono presenti nella Nato ma ciò non fa di loro degli alleati affidabili. Soprattutto nella fase di espansionismo neocolonialista incrementata da Recep Tayyip Erdoğan dopo il fallito colpo di Stato, il 15 luglio 2016, che lo vide prima vittima e poi protagonista vittorioso. Ankara sta accrescendo la sua aggressività anche grazie alla debolezza di Stati come l’Italia che scappano di fronte ai propri obblighi geopolitici. In Libia Erdoğan ha saputo occupare lo spazio lasciato vuoto dal pavido Governo italiano. E ora inizia a godere dei risultati del suo investimento politico. Il “sultano” non è uomo di pace, per cui deve essere chiaro a tutti che l’impreparazione di Giuseppe Conte, sulla quale ha fatto aggio il terzomondismo dei grillini e dei “dem”, espone l’Italia a una gravissima minaccia per la propria sicurezza. Il quotidiano “Yeni Şafak” spiega il senso del successo ottenuto da Ankara. Si legge: “Considerando l’escalation della provocazione greca nel Mediterraneo orientale, l'importanza strategica delle forze navali richiede la continuazione della presenza della marina turca nella regione... La presenza di navi turche è considerata essenziale per la sicurezza delle attività di perforazione (turche, ndr) nella regione”. Chiaro? La mossa è pensata nell’ottica di stringere in una tenaglia il nemico greco. E non solo.
In vista del semestre tedesco di presidenza dell’Ue, Erdoğan è pronto a mettere la stabilizzazione della Libia sul piatto delle trattative in cambio della ripresa del negoziato per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Ma c’è anche l’intenzione di assicurare copertura aeronavale alle perforazioni petrolifere turche nella Zona economica esclusiva turco-libica, negoziata lo scorso novembre tra Ankara e Tripoli e contestata da tutti i Paesi rivieraschi. Tale zona, che idealmente congiunge la Libia alla Turchia, passerebbe sotto il naso dei greci e dei ciprioti. Quale sarà la reazione italiana se la Marina turca dovesse minacciare navi della compagnia petrolifera Eni, da tempo operative nel Mediterraneo orientale e centrale? La solita nota di protesta diplomatica che non spaventa nessuno? Tutto sarebbe dovuto accadere fuorché di avere i turchi a un passo dalle nostre coste. Abbiamo avuto due anni buoni per capire che in Libia la diplomazia non sarebbe bastata a riportare la pace e che un impegno militare sul campo sarebbe stato indispensabile per evitare il precipitare della situazione.
Ancora nel 2019 il premier Conte aveva ricevuto dal presidente Usa Donald Trump il via-libera per guidare il processo di stabilizzazione della Libia. Fayez al-Sarraj ha fatto di tutto perché l’Italia lo sostenesse impedendo al burattino dei francesi, Khalifa Haftar, di prendere Tripoli e con essa il controllo dei gangli finanziari del Paese nordafricano. Cosa ha fatto il Governo italiano? Nulla che non fossero pacche sulle spalle e improbabili conferenze di pace alle quali nessuno ha mai dato un’oncia di credito. Occorreva che una forza armata d’interposizione impedisse la caduta di Tripoli per tenere aperto il canale della soluzione politica. Roma ha girato lo sguardo dall’altra parte producendosi in una sequenza di figuracce nell’assurda pretesa di voler tenere un piede in due staffe. La goffa ignavia italiana non è passata inosservata. Nel momento della resa dei conti tra i clan libici in lotta tra loro il “sultano” ha fatto la sua mossa con il beneplacito di Washington che ha preso atto dell’incapacità italiana a risolvere la crisi: si è schierato con il Governo di Accordo Nazionale (Gna) di al-Sarraj inviando armi e truppe in sua difesa. La presenza turca sul campo ha smascherato la debolezza strutturale dell’offensiva del generale Haftar. Il teatro di guerra si è rovesciato in favore dell’alleanza turco-tripolina e subito il “sultano” ha messo all’incasso le prime cambiali che il debole leader di Tripoli ha dovuto firmare per essere salvato. Il tutto mentre il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si esibiva in amene dichiarazioni congiunte con i partner europei, che certo non piangeranno per l’uscita di scena indecorosa dell’Italia dalla partita libica, sulla necessità di far rispettare l’embargo di armi.
Non sappiamo dirvi quale delle photo-opportunity scattate a Villa Pamphilj il premier sceglierà di inserire nel suo book fotografico. Possiamo dirvi quale sarà quella che da ora in avanti turberà i nostri sonni: la vista di un Tf-X, il cacciabombardiere di quinta generazione costruito dall’industria della Difesa turca che entrerà in servizio dal 2023. Per adesso l’attenzione di Erdoğan è focalizzata sull’Egeo. Ma quando il suo apparato bellico-diplomatico si sarà radicato in Libia, l’Italia avrà enormi difficoltà a mantenere la posizione dominante nel Canale di Sicilia e nel Mediterraneo meridionale. E poi c’è la questione dell’immigrazione. Vengono i brividi a pensare che sarà Erdoğan, che del ricatto all’Europa attraverso l’arma migratoria ha fatto un’arte, ad avere la mano sul rubinetto dei flussi di clandestini verso l’Italia. Saremo una nazione sotto schiaffo. Lo ha lasciato intendere Ibrahim Kalin, portavoce del presidente turco, che lo scorso venerdì ha dichiarato: “Uno dei punti più importanti dell'immigrazione clandestina è la Libia. Perché è molto vicino all'Europa. C'è Malta proprio di fronte. È il vicino di Italia e Spagna. Se c'è instabilità in Libia, se la guerra continua, la migrazione illegale continua, il traffico di stupefacenti e il traffico di esseri umani continuano, ciò incide sulla sicurezza della Nato e sulla sicurezza dell'Europa”.
Se non è una velata minaccia questa, che altro è? Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti, Matteo Renzi e compagni si preoccupano di sopravvivere nella stanza dei bottoni. Gli italiani si preoccupano di sopravvivere. E con i turchi alle porte ci toccherà dormire con un occhio aperto.
di Cristofaro Sola