venerdì 5 giugno 2020
Non è che al premier Giuseppe Conte manchi il dono della chiarezza. Sulla vexata quaestio della chiamata delle opposizioni a collaborare alla ricostruzione del Paese, il titolare di Palazzo Chigi non accetta confusione di ruoli. Al premier non serve un Governo di salute pubblica che, per inciso, difficilmente potrebbe essere guidato da lui. Per assecondare la chiamata all’unità della nazione invocata dal capo dello Stato, Conte ha pensato ad un eccellente passatempo: fare gli Stati generali dell’economia. Per spiegarla ai lettori non esperti di passatempi diurni, si tratta di un’amena attività sociale alla quale prendono parte politici, accademici, esponenti dei corpi intermedi e della società civile, qualche esperto convocato dall’estero, per discutere in libertà di come immaginare il futuro. Ai cosiddetti Stati generali, perché riescano, due cose non devono mancare: un fiume di noiosi interventi sui massimi sistemi e una robusta scorta di noccioline, patatine e drink.
In genere, i risultati di un tale sforzo collettivo di pensiero si materializzano in una raccolta di scritti che, pubblicati, finiscono nelle sale d’attesa degli uffici pubblici e sugli scaffali di qualche incallito bibliofilo. Gli Stati generali sono un porto franco dove le differenze tra maggioranza e opposizioni si stemperano in vista di una condivisione fattibile solo sulla carta. Tale è l’apertura che Conte è pronto a offrire alle opposizioni. Non certo la disponibilità a prendere insieme le decisioni che servono a rimettere in moto l’economia del Paese. Sotto questo aspetto, la posizione del premier è comprensibile. Sa di essere un fortunato, la sua fulminea carriera politica lo dimostra. Nel volgere di pochi mesi da avvocato sconosciuto al pubblico è passato a interloquire con i grandi della Terra. Non ha alle spalle una forza partitica propria; non è espressione di una tradizione politica; non ha conosciuto la complessità della battaglia elettorale; si è trovato a suo agio nel cambiare casacca per guidare un Governo opposto a quello presieduto in precedenza. Uno così non ha nulla da perdere. Paradossalmente tale consapevolezza lo rende più spregiudicato nell’alzare la posta in gioco. Dopo le parole di Romano Prodi che lo hanno consacrato premier senza alternative possibili, Conte è pronto al tutto per tutto, o la va o la spacca.
Passato indenne per la fase acuta della pandemia, perché mai dovrebbe ammettere ai dividendi della ricostruzione tutti gli altri? A coloro che confondono il patriottismo civico con la disponibilità a saltare sul carro del Governo penta-demo-renziano, Giuseppe Conte risponde offrendogli un’attività da praticare ai giardinetti pubblici. Si dirà: c’è il rischio che la situazione sociale esploda. Volete che Conte non lo sappia? È perfettamente consapevole che se si dovesse mettere male in autunno lui sarà il primo a farne le spese. E cosa ha da perdere l’avvocato Peppino? La dote di esperienza, di credibilità e di conoscenza della politica che non ha mai avuto? A fronte del nulla che era prima di vincere il biglietto della lotteria che lo ha portato a Palazzo Chigi, potrebbe beccare un’altra carta vincente, magari con l’aiuto di un’Europa che la pensa come Romano Prodi a proposito dell’impraticabilità in Italia di soluzioni alternative all’attuale. Se il Paese in autunno regge, non esplode e riesce ad agganciare la ripresa a rimbalzo nel 2021, Conte la sfanga e finisce nei libri di storia. Diversamente, toglie il disturbo avendoci comunque guadagnato in relazioni personali che contano. Tornerà a fare l’avvocato giovandosi del titolo, conferitogli a mo’ di buonuscita per i servizi resi ai padroni del vapore, di “riserva della Repubblica”.
Un modo elegante per dirgli: “vai a casa ma un giorno ritornerai”. Della pericolosità di questo tipo di giocatore se ne sono accorti anche quelli del Partito democratico che non hanno fatto salti di gioia nell’ascoltare lo scorso 3 giugno l’ennesima conferenza stampa del premier, autocelebrativa nelle forme e gattopardesca nei contenuti. Citofonare Andrea Orlando per conferma. Se il problema non è di Giuseppe Conte, lo è invece dell’opposizione. Più propriamente, di quella parte che non riesce a farsi cooptare nell’area della maggioranza per partecipare attivamente alla fase della ricostruzione. Forse è proprio vero ciò che il compianto presidente Giulio Andreotti diceva del potere: “logora chi non c’è l’ha”. Ma le crisi d’astinenza che taluni esponenti del partito berlusconiano manifestano sono imbarazzanti. Se ne facciano una ragione: Conte non li vuole e non ha bisogno dei loro voti. In Parlamento non c’è un “cristo” della odierna maggioranza disponibile a voltargli le spalle. Tengono famiglia. E poi, che senso avrebbe per un’opposizione che si rispetti correre in soccorso della maggioranza senza poter accedere ai livelli decisionali? Sarebbe un suicidio politico.
Se le cose dovessero andar male, gli elettori non farebbero troppe distinzioni nell’individuare i responsabili delle proprie sciagure. Lo ha capito benissimo Giorgia Meloni che cresce nei consensi perché non deflette dalla sua posizione di alternativa radicale al Conte bis. Dovrebbe averlo compreso anche Matteo Salvini che, a causa di qualche recente incertezza, si è fatto superare in rigore critico nei confronti del Governo anche dal neo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Se non si riuscisse a schiodare l’attuale maggioranza dal ponte di comando della nave Italia, all’opposizione di destra non resterebbe che radicalizzare il confronto portando nelle piazze la propria istanza di cambiamento. Quando l’onda comincia a montare si hanno solo due possibilità: restarne travolti o cavalcarla. Chi è abituato a prendere il sole dalla plancia di uno yacht fa fatica a comprendere quanto sia complicato restare in piedi su una tavola da surf. Ma non lo è per i tanti italiani addestrati ben prima del Coronavirus a stare dritti sulle onde anche a piedi nudi. Alla presa per i fondelli degli Stati generali si risponda con le adunate generali, auspicabilmente oceaniche. A cominciare da quella già programmata dalla destra per il prossimo 4 luglio. Sarebbe un bel modo per inventarsi un “Independence day” tutto italiano.
di Cristofaro Sola