lunedì 18 maggio 2020
Esiste una categoria di uomini politici che Lorenzo Infantino ha brillantemente definito “gli impresari della menzogna”, descrivendoli così: “ Non tutti comprendono i vantaggi di cui ci rende beneficiari la società aperta. Molti s’illudono che la semplificazione prodotta dalla centralizzazione delle decisioni possa essere la permanente soluzione di ogni problema. E si rendono in tal modo disponibili alla propaganda di facili demagoghi. Gli impresari della menzogna hanno più volte, nel corso della storia, portato all’imbarbarimento di popoli che pur sembravano percorrere le vie della civiltà. Uno sguardo rivolto al Novecento e alle sue tragedie dovrebbe essere sufficiente a ricordarcelo”.
L’illustre professor Infantino ha tutte le ragioni del mondo. Ritengo infatti che, per convincersene, basti pensare a Hitler, Stalin, Mao, Mussolini, Pol Pot, Castro, nonché ai loro mentori ideologici o culturali, dichiarati o impliciti; e ad ognuno dei loro più piccoli emuli e seguaci, non solo riguardo agli Stati ma anche nell’ambito delle nazioni, mi sento d’aggiungere. In effetti gl’impresari della menzogna iniziano in piccolo e arrivano a giganteggiare perché le società, irretite dalle loro imposture, finiscono per illudersi che, tutto sommato, il prezzo da pagare per preservare la libertà sotto “il governo della legge” sia più alto che per conservare la tranquillità di sopravvivere mediante l’obbedienza agli ordini di governanti autocratici. Cullandosi nella rassicurante illusione e smettendo di vigilare sulle mene di costoro, le società cedono agl’impresari della menzogna e così perdono libertà e sicurezza, accorgendosene purtroppo a cose fatte o troppo tardi.
La categoria dei demagoghi, che possiede pure la caratteristica pretesa di creare un uomo nuovo in una società nuova (e qui oso ammonire i lettori a stare in guardia ogniqualvolta un mestierante incolla l’aggettivo “nuovo” a qualche sostantivo politico perché ne risulta l’equivoco artificio retorico dell’antifrasi: per esempio, “nuova libertà” significa “illibertà”, “nuova giustizia” equivale a “giustizia diseguale” e “ingiustizia”, “nuovo ordine” vuol dire “disordine” e “oppressione”), mi piace distinguerla in due sottogruppi. Al primo appartengono gl’impresari che utilizzano menzogne distruttive, intrise di odio verso individui e gruppi additati come nemici mortali, unici responsabili di tutto il male da estirpare per instaurare il “nuovo” ordine. Al secondo appartengono gl’imbonitori, altrimenti definibili “indoratori di pillole”. Da impresari minori della falsificazione usano le armi subdole della seduzione, dell’allettamento, della lusinga, appartenenti sicuramente pur’esse alla demagogia, non diversamente dalle smaccate falsità degl’imprenditori maggiori, ma senza l’escatologia funesta e rovinosa essenziale a costoro. Gl’imbonitori, cioè, mirano ad ottenere il consenso del popolo blandendone le aspirazioni con promesse difficilmente realizzabili. In breve, gl’impresari maggiori additano la luna in cielo come una mela d’oro da cogliere allungando le mani; gl’impresari minori la fanno intravedere specchiata nel pozzo, apparente e attraente, però impalpabile.
A riguardo mi è capitato di vedere il recente quadro che il pittore Giuseppe Annese, vivente in Francia, ha voluto intitolare, appunto, “L’imbonitore”. Potete ammirarlo qui sopra come icona del mio articolo, avendo il Maestro concesso a me e a “L’Opinione” il permesso gratuito di utilizzarlo. A me il quadro pare felicemente espressivo dei concetti prima esposti, ai quali mi consente di aggiungere i presidii (morali, intellettuali, fattuali) indispensabili per proteggere la società dagl’impresari della menzogna e dagli imbonitori. E tali presidii mi sono stati evocati con prepotenza proprio dalle tre ringhianti figure che pure compaiono nel dipinto. L’Autore del quadro ha voluto ritrarre e dare il nome “L’imbonitore” solo ad un personaggio e all’intero quadro. Quindi non forzo la mano al Maestro, né attribuisco agli altri suoi tre personaggi un significato estraneo, se, interpretandoli come mi suggerisce per contrasto il soggetto principale stabilito dall’Autore, sento di doverli battezzare “La verità”, “La realtà”, “La razionalità”. L’omino in giacca verde, pantaloni rossi, occhialini, ìndice ammonitore alzato, ha le stimmate del predicatore progressista, del chierico integrato nell’avanguardia militante dell’intellighenzia (l’intellighenzia è sempre di sinistra, ironizzava Montanelli!). La massa popolare, indistinta e muta, gli sta tutt’intorno. Lo accerchia. Ma, particolare molto intrigante, le tre file di popolo che gli stanno davanti guardano l’oratore e sembrano pendere dalle sue labbra, mentre le tre file alle sue spalle pare che se ne allontanino, mostrandogli il deretano. Le tre figure incombenti sull’omino, che ha tutta l’aria di non avvedersene e dunque di non avvertirne la minaccia, indossano camicie bianchissime con cravatta verde e rossa, quasi un richiamo del Tricolore. Le bocche sono spalancate; le labbra, rosse come spalmate di rossetto vivo; le teste, sollevate all’indietro come belve in procinto di azzannare; i denti, bianchissimi a sega come gli squali.
Anche prescindendo dall’ispirazione estetica e dalle intenzioni artistiche, nonché dall’estrinseca intitolazione dell’Autore, il quadro rappresenta una calzante metafora delle degenerazioni della democrazia, se i distruttivi quanto ineliminabili impulsi a mentire alle masse e a lusingare il popolo, contro i loro stessi genuini interessi, non vengano tuttavia contrastati e rattenuti dalla coerente e intransigente applicazione politica dei principi di Verità, Realtà, Razionalità, che l’esperienza storica ha posto a guardia della “libertà dei liberali”. Soltanto dov’essa è assicurata, mentitori e imbonitori, categorie eterne del consorzio umano abbondanti pure in Italia, possono infatti esser tenuti a bada, resi inoffensivi, obbligati a piegare le ginocchia a capo chino davanti al diritto e alla giustizia, con il fiorire della civilizzazione.
di Pietro Di Muccio de Quattro