La doppia pesantezza del Decreto “rilancio” e la decrescita di Stato

venerdì 15 maggio 2020


Il Decreto “rilancio”, approvato dal Consiglio dei ministri il 13 maggio, ha una caratteristica: la pesantezza. Non sembri uno sbeffeggiamento: non intendo – né è mio costume – perculare chi sta in qualche modo lavorando.

Intendo, piuttosto, rifarmi al saggio che Italo Calvino dedicò alla leggerezza (La leggerezza, Passi scelti, da Lezioni americane). La leggerezza, diversamente dalla pesantezza, è una virtù, che impone di fare una cosa tanto semplice quanto, proprio perché semplice, paradossalmente difficile: togliere peso, sottrarre, scarnificare. Togliere peso alle cose e dunque al pensiero, al linguaggio, alla scrittura, agli apparati burocratici, allo Stato e, finalmente, alle leggi.

Togliere per dare spazio alla sostanza delle cose, alle libertà, che delle cose sono le più preziose. Anche le Sacre scritture ne parlano: “Il di più viene dal maligno”, ricorda Matteo, l’evangelista (Mt. 5, 37).

Per poco che ci si soffermi sul testo del decreto, appare evidente come esso sia doppiamente pesante: nella forma e nella sostanza. Dal primo punto di vista, non si dice nulla di nuovo denunciando la lunghezza biblica del provvedimento, formato da 256 articoli per complessive 464 pagine, la complessità del linguaggio, l’infarcitura di rinvii ad altre leggi, decreti, trattati europei. Insomma, la solita giungla di parole, casi e sottocasi, regole ed eccezioni, alle quali assistiamo sgomenti ma anche, ormai, rassegnati da tempo immemore.

Il terribile vizio della pesantezza delle leggi sembra infatti inestirpabile. Lo denunciarono non solo Alessandro Manzoni, tratteggiando magistralmente la figura dell’Azzeccagarbugli, ma anche, con parole di fuoco, giuristi di chiara fama: da Piero Calamandrei a Costantino Mortati, da Gustavo Zagrebelsky ad Augusto Fantozzi, e poi Natalino Irti, Michele Ainis, Bernardo Giorgio Mattarella e molti altri.

Continuare a battere questo tasto è tempo perso: la pesantezza delle leggi è voluta, è scelta, vien da dire, scientificamente meditata per imbrigliare ancor di più i cittadini e per accrescere il potere burocratico e quello giudiziario. È una scelta fatta, insomma, per ridurre subdolamente le libertà di autodeterminazione dell’individuo.

La leggerezza ha anche una faccia più sostanziale, che poi è l’altro corno della pesantezza. È la faccia bensì delle libertà, ma di quelle economiche. Si può forse dire che è la faccia della loro vitalità, fatta di lavoro, intrapresa, crescita, benessere, realizzazione.

La cascata di miliardi dipinta nel decreto, per ora, è soltanto proclamata. Quei miliardi non ci sono o, meglio, ci sono in minima parte. E non ci sono perché la Tesoreria, ossia l’organo che gestisce la liquidità per conto dello Stato, non ha soldi in cassa sufficienti per dare seguito alle promesse. La pioggia di miliardi, annunciata con la stessa enfasi con la quale si leggono le vincite della lotteria Italia, non potrà bagnare la terra arida del commercio e dell’industria, delle professioni e del terziario, se non, forse, fra qualche mese, quando sarà troppo tardi.

Perché la pioggia cada, dovranno essere emessi titoli del debito pubblico e avviate le tortuose procedure di erogazione dei denari, oppure dovranno passare mesi e mesi prima che i cittadini possano usufruire dei crediti d’imposta. Un sistema, insomma, che si sta avvitando su se stesso, fra necessità dell’economia reale, miopia politica, mancanza di denaro sonante ed esigenze di bilancio dello Stato.

La pesantezza sostanziale del decreto sta anche in un altro aspetto, tutto politico, speculare al precedente e anch’esso limitativo delle libertà.

C’è un proverbio, attribuito forse impropriamente a Confucio, che dice: “Date a un uomo un pesce e mangerà un giorno. Insegnategli a pescare e mangerà tutta la vita”. Ora, nellemergenza non c’è tempo per insegnare a pescare, la fame va tolta subito con un pesce affumicato, lo sappiamo. Ma una classe dirigente che abbia lambizione di “guardare oltre“, non solo deve togliere subito le grinze della fame, non solo deve contestualmente insegnare a pescare, ma deve anche progettare le migliori canne da pesca possibili, quelle che consentano di lanciare lamo lontano dalla riva, il più lontano possibile.

Il decreto in discussione non fa nulla di tutto questo: non dà il pesce, limitandosi ad annunciare un pesce che verrà, almeno in larghissima misura; non insegna a pescare, perché nessuna riforma strutturale è messa in cantiere; non idea nuove canne da pesca, perché non ha al suo fondo nessun progetto paese innovativo. Quel che c’è è spesa corrente a debito, quasi tutta assistenziale e in massima parte solo promessa o usufruibile tra mesi e mesi, com’è per i crediti d’imposta. E quel che c’è è la ripetizione di politiche stantie e fallimentari. Ne sono esempi la ricostituzione, sotto il nome di “Patrimonio rilancio”, della vecchia Iri, carrozzone di Stato nato in via transitoria nel 1933 e finalmente chiuso una ventina di anni fa, e la statalizzazione ulteriore di alcune aziende, con sovvenzioni miliardarie, ad iniziare da Alitalia.

In questo modo sarà difficilissimo, se non impossibile, ricostruire l’Italia. Mettiamocelo nella zucca, direbbe Collodi: questa è la via della decrescita.

 

(*) agiovannini.it


di Alessandro Giovannini