mercoledì 13 maggio 2020
Siamo proprio sicuri che Silvia Romano, dopo un anno e mezzo di prigionia in Somalia, sia davvero tornata a casa?
Certo, da una determinata prospettiva è tornata: ha riabbracciato la sua famiglia, ha stretto la mano al capo del Governo e al ministro degli Affari esteri che si sono spesi per la sua liberazione, ha ringraziato parenti ed amici, si è commossa, come è normale che sia. Ha dovuto anche imparare a resistere e a sopportare le ingiurie e le maldicenze che i soliti mascalzoni le hanno lanciato contro, non si sa bene per quale motivo che non sia la loro endemica carica di violenza.
Per non parlare delle minacce ricevute e che forse indurranno le autorità competenti a dotarla di una scorta personale: a questa esigenza si arriva dal momento che alcuni folli l’accusano di una sorta di intesa col nemico, interpretando il suo comportamento come fossimo in guerra e come se lei fosse stata un soldato al fronte, incaricato di difendere le ragioni italiane contro quelle del nemico.
Insomma, la solita follia dei soliti deficienti, che invece dovrebbero interrogarsi circa le condizioni di assoluta mancanza di sicurezza nel cui ambito diverse organizzazioni non governative spediscono ragazzi e ragazze ad operare in regioni di grande pericolosità, con i risultati che si vedono, sfruttando la loro generosità umana e la freschezza del loro spirito. Tuttavia, il caso di Silvia merita molta attenzione e molta comprensione per le brevi ragioni che esporrò.
Ho infatti l’impressione che di Silvia non sia ancora tornata a casa la sua parte più importante, rispetto alla quale ogni altra passa in secondo piano, vale a dire l’anima. È come se liberata nel corpo e perciò tornata in Italia dietro il pagamento del riscatto, la sua anima ancora fosse trattenuta in un altrove misterioso, di cui poco sappiamo e che non si sa se e quando le consentirà il ritorno. Infatti, Silvia, tornata in Italia, ha affermato soddisfatta di essersi convertita all’Islam dopo aver letto il Corano e di aver cambiato perfino il nome in Aisha (una delle mogli del Profeta). Ecco, fra l’altro, perché vestiva il tipico abito delle donne somale.
Ora, questa affermazione mi pare poco verosimile.
Innanzitutto, mi sento di escludere che lungo i sentieri dei villaggi dell’entroterra somalo o nelle grotte dove per mesi Silvia è stata tenuta prigioniera sia disponibile un Corano in leggibile traduzione italiana. Ne segue che Silvia avrebbe dovuto leggere il Corano in arabo e che, per farlo, avrebbe dovuto studiare questa lingua. Dove? Nella grotte o nei villaggi somali? Con quale insegnante? Forse da sola? E per quanto tempo?
Non solo. Per giungere ad una seria conversione – tale da essere subito ostentata anche attraverso il vestiario – avrebbe dovuto conoscere l’arabo talmente a fondo da consentirle una meditazione adeguata del Corano e una sincera accettazione della sua globale e minutissima precettistica.
E tutto questo in quanto tempo? Forse in pochi mesi? Forse in quella situazione di prigionia? E da sola? Domande legittime se si pensi come la conversione religiosa non sia equiparabile a un mutamento d’abito, quando si è indotti a vestire quello più adatto all’occasione mondana da frequentare, investendo invece essa la persona umana nella sua profondità più recondita.
Se si pensa, per esempio, che San Paolo, per convertirsi dall’ebraismo a Cristo, impiegò circa tre decenni e che Sant’Agostino, per transitare da varie forme di scetticismo al cristianesimo, ebbe bisogno di un lasso di tempo analogo, si capisce subito che la conversione autentica e meditata di Silvia appare altamente improbabile, anche se ovviamente ciascuno rappresenta un caso a se.
L’impressione che residua è allora che la povera Silvia, in assoluta e perfetta buona fede, ma costretta a vivere situazioni molto precarie di soggezione fisica e psicologica, difficilmente immaginabili da tutti noi che stiamo seduti in poltrona a leggere i giornali, sia stata indotta più che a percorrere un sentiero di autentica conversione – impossibile per i motivi sopra precisati – ad accettare una sorta di conversione preconfezionata e, per dir così, pronta all’uso, da poter mostrare, una volta tornata in patria, come una sorta di trofeo alla rovescia: come se i suoi rapitori, appunto, con un gesto di beffarda ironia, avessero voluto significarci che Silvia tornava a casa libera sì nel corpo, ma non nell’anima. Perché l’anima, quella, è ancora prigioniera, ostaggio, dei rapitori, da loro occupata “manu militari” e non si sa quando sarà liberata: è e rimane un loro trofeo.
Ciò che occorre allora – anche se è quasi inutile dirlo – allo scopo di propiziare la liberazione autentica di Silvia, cioè della sua anima, è un’oltremisura di amore e di comprensione che solo la sua famiglia e i suoi più veri amici potranno garantirle. E ci vorrebbe anche l’accettazione accogliente di ciascuno di noi. Occorre che la potenza dell’amore dei suoi più cari – “omnia vincit Amor”, scriveva Virgilio – fornisca a Silvia un solido terreno lungo il quale muoversi, senza alcun timore e per il tempo necessario, alla ricerca della sua anima, ancora perduta e della quale probabilmente elle non sa ancora granché. E se alla fine di questo lungo e periglioso percorso, Silvia dovesse ritrovare la sua anima ancora nell’Islam, benvenuta sia in ogni caso. Infatti, islamica o cristiana, Silvia resterà sempre e comunque una di noi, degna di rispetto e d’amore.
di Vincenzo Vitale