lunedì 30 marzo 2020
L’immagine dell’Italia con il cappello in mano per chiedere soldi ai Paesi nordici recalcitranti è fuorviante e, quanto meno, avvilente. Primo perché gli Eurobond non sono né regali né prestiti chiesti ai Paesi di cui sopra. Perché chi presta è il mercato e gli investitori che vi operano. In realtà lo scoglio principale che da molti anni il nostro Paese incontra nelle interlocuzioni con i partner dell’area euro, soprattutto con la Germania, è la rigidità dell’architettura dell’euro: una moneta unica senza un bilancio unico, rigidi parametri sul deficit di bilancio e utopici vincoli di rientro del debito nel 60 per cento del Pil, che erano irrealizzabili prima, lo sono ancor di più oggi. Non solo per l’Italia. Ma, praticamente, per tutti i membri dell’eurozona. Soprattutto in questo momento, alle prese con quella che già si prefigura come una nuova grande depressione. Un debito diventato sempre più pesante anche a causa del livello bassissimo dell’inflazione, da decenni inferiore al programmato in Ue, per la paranoia tedesca verso i fantasmi dell’iperinflazione.
Pochi giorni fa, i nostri governanti sono andati a elemosinare lo sforamento del tetto del 3 per cento, per una manciata di miliardi, quando la Germania annunciava, inaudita altera parte europea, gigantesche misure straordinarie e dichiarava che il deficit di bilancio non era più un tabù. Non una sorpresa, la Germania già se ne infischiava allegramente dei decennali richiami della Commissione, della Bce e dell’Imf a ridurre il proprio surplus di bilancio investendo di più. Sempre per insostenibili rigidità delle regole, in caso di downgrading, sotto il livello di investimento, da parte delle agenzie di rating molte nostre banche non potranno più detenere debito italiano in portafoglio. Mentre le banche tedesche pur imbottite di derivati, che sono una vera e propria bomba ad orologeria, nel bisogno, potranno accedere al profondo pozzo del Mes al quale anche noi potremo, sì, partecipare, ma come contributori e, difficilmente, come prenditori.
Senza condonare nulla alle disastrose ataviche gestioni della cosa pubblica nel nostro Paese (soprattutto oggi che abbiamo al timone la corte dei miracolati insieme a variopinti arnesi della vecchia ditta), forse, questo gravissimo momento di crisi potrebbe essere l’occasione per pretendere che anacronistici parametri di valutazione delle economie dei Paesi della zona euro siano rivisti alla luce di più realistici criteri. Nel caso dell’Italia, per esempio: il debito sovrano è per quasi 2/3 nelle mani di investitori italiani (tenendo conto anche di quantità detenute attraverso intermediari esteri). L’Italia è da decenni in surplus di bilancio a differenza di diversi altri Stati membri. Il nostro Paese non ha mai avuto bisogno di interventi esterni per salvare conti pubblici o banche in dissesto, mentre si è fatto carico di partecipare al salvataggio di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda. Anche in forma bilaterale e ricevendo interessi inferiori al proprio costo di provvista. Il debito privato italiano è, comparativamente, molto più basso della maggioranza di quello degli altri Stati membri.Perché sottostimare l’importanza di questo dato e considerare solo il rapporto del debito pubblico sul Pil visto che il Prodotto Interno Lordo contiene consumi e investimenti tanto pubblici quanto privati? La posizione patrimoniale netta dell’Italia verso l’estero è, di nuovo, migliore di molti altri partner europei.
C’è, poi, da chiedersi perché con una struttura sicuramente più solida di quella di diversi Paesi dell’area, l’Italia sia gravata da un pesantissimo scarto sullo spread persino rispetto a Paesi con fondamentali peggiori o, addirittura, tecnicamente falliti come la Grecia. E perché improvvise febbri dello spread sorgano e si spengano misteriosamente nel giro di pochi giorni? Davvero si pensa che la prospettiva di stabilità economica dell’Italia dipenda dall’aderenza ai rigidi canoni di austerità pretesi dai partner nordeuropei? I quali, spesso ad arte, fanno trasparire dubbi sulla nostra solvibilità. Nei 150 anni di storia unitaria, l’Italia non ha mai mancato, ad una scadenza, di onorare il proprio debito. A differenza di quasi tutti gli altri Stati europei, inclusi, quelli che pretendono, oggi, più rigore dagli altri.
In conclusione, dalle macerie che lascerà questa crisi planetaria, l’Italia potrà riemergere più forte e solida non solo se riuscirà a trovare maggiore credibilità politica, attraverso un ricambio della classe, attualmente, al governo del Paese, ma anche e soprattutto se riuscirà a riaffermare, con orgoglio, il proprio ruolo di Paese fondatore per riscrivere nuove e più equilibrate regole di funzionamento della moneta unica e dell’Unione europea. A riformare dalle fondamenta questa Europa costruita a metà e ancorata a irraggiungibili criteri di convergenza. Altrimenti sotto quelle macerie resteranno sepolti, oltre alla moneta unica, anche il sogno europeista scolpito nel Trattato di Roma e, insieme ad esso, le stolide illusioni di quanti credono di poter continuare a prosperare con il ristretto campo visivo di ciò che accade, esclusivamente, entro i propri confini.
di Raffaello Savarese