lunedì 23 marzo 2020
Sembra che la crisi provocata dal coronavirus sia servita a mettere in drammatica evidenza i vizi genetici degli italiani e a rendere indispensabile una drastica e duratura azione di rieducazione di un popolo dedito da sempre al mancato rispetto di ogni regola ed al solo perseguimento del proprio egoismo personale.
Questa sensazione ha risvegliato un filone mai esaurito della cultura nazionale, quello dei cosiddetti anti-italiani critici per troppo amore dei difetti dei propri conterranei, che hanno subito colto la palla al balzo per rilanciare l’idea di utilizzare la pandemia per “rifare gli italiani” estirpando i loro difetti con il bisturi delle misure severe imposte dall’emergenza.
Non c’è bisogno di contrapporre agli anti-italiani gli iper-italiani sostenendo che “rifare” un popolo con tremila anni di storia alle spalle costituisce il classico “vasto programma” che risulta essere sempre irrealizzabile. In compenso c’è un programma molto più ridotto che bisognerebbe tentare di concretizzare una volta esaurita l’ondata emergenziale e che è costituito dai tanti nodi irrisolti non dei vizi genetici ma del cumulo di errori politici, istituzionali, economici, burocratici e strutturali compiuti negli ultimi due o tre decenni della vita nazionale e che è stato portato alla luce dalla crisi in atto.
L’errore politico più evidente è quello rappresentato da un governo nato debole e formato da forze minoritarie nel Paese che sfrutta l’emergenza per blindarsi nel Palazzo allo scopo di sopravvivere il più a lungo possibile. In passato le circostanze eccezionali, dalle guerre alle crisi economiche fino ai terremoti, hanno provocato l’allargamento della base dei consensi degli esecutivi. Con formule che sono andate dai governi di salute pubblica a quelli di solidarietà nazionale. Oggi si verifica il contrario. Un governo minoritario si trincera a Palazzo Chigi senza rendersi conto che più si accartoccia su se stesso più perde quella fiducia dell’opinione pubblica del Paese che è la condizione indispensabile per uscire dalla crisi. Tornare alla normalità democratica imporrà di ridare la centralità politica al Parlamento togliendola ad un esecutivo incapace di suscitare fiducia. Ma una volta chiusa la fase emergenziale non potrà non essere affrontato il nodo istituzionale di un regionalismo mal definito che oggi mette in competizione governo nazionale e governi locali alimentando la confusione e l’incertezza degli italiani. Al tempo stesso andrà ripensato il ruolo della sanità, sia pubblica che privata, uscita decisamente malconcia dai contrasti di competenze seguiti agli anni del rigore ottuso dell’ultimo decennio a cui si debbono la carenze strutturali odierne.
Che dire, poi, della politica dell’assistenza a scopi elettorali che è stata preferita alla realizzazione di una seria politica di rilancio del lavoro e della produzione? E la burocratizzazione sempre più ossessiva della vita pubblica e privata dei cittadini che ha già messo in mostra la propria tragica inefficienza nella ricostruzione dai terremoti mai partita seriamente e che appare come il vero ostacolo a qualsiasi ripresa di una normalità anche parziale?
Più che rifare gli italiani, quindi, è bene incominciare a pensare alla necessità di rifare l’Italia correggendone gli ultimi e più gravi errori commessi. Non è un vasto programma ma un programma minimo. Che se non viene realizzato potrebbe portare allo stravolgimento autoritario della democrazia liberale repubblicana!
di Arturo Diaconale