martedì 10 marzo 2020
Nella confusione assoluta che il sovrapporsi e il contraddirsi di decreti governativi ha prodotto in questi ultimi giorni, in tema di misure di sicurezza contro l’epidemia, decine di migliaia di persone hanno confusamente abbandonato Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per rifugiarsi nelle regioni di provenienza, tutte meridionali: Puglia, Sicilia, Calabria.
Avevano l’obbligo di farlo? No. Eppure, molti hanno ritenuto di prendere l’ultimo treno o l’ultimo aereo verso la salvezza. La motivazione forse risiede nella pessima e perfino grottesca formulazione del decreto governativo per ultimo emanato. Questo decreto, infatti, all’articolo uno, non contiene norme giuridiche, ma semplici raccomandazioni, poco più che consigli, insomma.
È mai possibile una cosa del genere? Se si tenesse fede alla normale tecnica di redazione dei testi normativi, ne verrebbe che un decreto del Governo deve contenere soltanto precetti di carattere cogente, vale a dire norme giuridiche vincolanti.
Invece, questo articolo uno del decreto si limita a dichiarare che sono “da evitare” gli spostamenti dalle zone già individuate come focolai verso altre regioni, se non per “comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità o spostamenti per motivi di salute”.
Che significa dal punto di vista del decreto?
Nulla, assolutamente nulla, dal momento che la quasi totalità degli spostamenti fra le regioni italiane – tranne i casi di viaggi turistici, oggi peraltro disertati – avvengono o per ragioni di lavoro o per necessità o per motivi di salute. Migliaia di persone infatti quotidianamente raggiungono sedi di altre regioni per prestare la propria attività lavorativa o perché costretti da una qualche necessità o per seguire una qualche terapia.
E allora? Allora, niente. Niente di niente. Se non la assurda congerie di raccomandazioni e consigli invece di comandi e precetti.
Chi si ricordi ancora qualcosa della veneranda disciplina chiamata Teoria generale del diritto – oggi negletta a favore di altre materie per nulla formative (informatica giuridica, diritto dello Spazio ecc.) – e che forniva le coordinate generali delle principali categorie giuridiche (validità, nullità, annullabilità, efficacia, obbligo, onere ecc.), non faticherà a distinguere fra comandi da un lato e consigli dall’altro lato.
Norberto Bobbio, fra gli altri, ha fatto ben capire molti decenni or sono la differenza fra un semplice suggerimento, il quale può essere senza alcun problema accettato o disatteso, e una norma giuridica vera e propria, la quale, sia nella forma del comando che in quella del divieto, obbliga in modo incondizionato il destinatario, che ne risulta perciò vincolato.
Collocare in un decreto governativo semplici consigli è cosa priva di senso. Come lo sarebbe comandare in modo imperativo un’attività di per sé già necessaria (per esempio, “ti comando di respirare”) o invece oggettivamente impossibile (per esempio, “ti comando di volare” ).
Il decreto di Giuseppe Conte mostra inoltre il grande demerito di mescolare in modo ambiguamente confusionario norme e consigli, precetti e suggerimenti, in un clamoroso pastrocchio verbalistico che nulla conserva della chiarezza necessaria per farsi comprendere dai destinatari.
Da qui, ovviamente, incertezze, contraddizioni, esitazioni… in un grottesco crescendo rossiniano che più che offrire direttive di comportamento, si offre – di suo – alla chiacchiera da bar.
Non ci voleva proprio, in questo tempo già martoriato da crisi sanitarie e conseguenti crisi economiche. Conte ha aggiunto una ulteriore crisi derivante da un uso improprio dell’armamentario giuridico, in quanto un decreto del Governo non può mai essere pensato per dispensare consigli e suggerimenti. Un vero e deprecabile errore di grammatica nella tecnica di redazione dei testi normativi, di cui nessuno sentiva il bisogno.
di Vincenzo Vitale