venerdì 6 marzo 2020
Hiroo Onoda è stato un ufficiale dell’esercito imperiale nipponico nel corso della Seconda Guerra mondiale. Onoda è stato anche un mito per molte generazioni di giovani di destra, mentre per i militanti comunisti ha rappresentato la caricatura del soldato testone. Perché è lui il protagonista di un’incredibile vicenda umana che è diventata metafora nel linguaggio comune. Avete mai sentito dire: sei come quel giapponese che ha continuato a combattere perché nessuno gli aveva spiegato che la guerra era finita da un pezzo? Quel giapponese è lui. Per la storia, il giovane tenente Onoda era stato inviato nel 1945 nella giungla di Lubang nelle Filippine. Il suo comandante, il maggiore Yoshimi Taniguchi, gli aveva comandato di tenere la posizione fino a nuovo ordine compiendo azioni di guerriglia contro il nemico. Onoda ha obbedito continuando a nascondersi nella giungla dalla quale rispuntava fuori periodicamente per compiere le sue incursioni. L’originalità della vicenda sta nel fatto che, non avendo ricevuto disposizioni contrarie, Onoda fedele al suo giuramento ha continuato a combattere fino al marzo del 1974, quando i governi democratici del Giappone e delle Filippine si sono accordati per risolvere l’imbarazzante situazione. Il governo di Tokio spedì a Lubang il maggiore Taniguchi perché incontrasse Onoda e gli impartisse finalmente l’ordine di resa al nemico, che non era più tale da trent’anni. Onoda ha raccontato la sua storia in un libro autobiografico edito dalle edizioni Sannô-kai.
Perché vi abbiamo parlato di lui? Sarà irriguardoso per la memoria di un eroe ma la sua vicenda richiama alla mente il comportamento dell’allegra brigata dei globalisti ad oltranza che continua imperterrita a inneggiare alle magnifiche sorti e progressive del modello di società aperta. L’allegra brigata non demorde nonostante l’esplosione dell’epidemia da Coronavirus. Eppure, la diffusione planetaria del contagio ha mostrato tutta la fragilità del sistema unico globale. Se fino a qualche tempo fa la Teoria del caos, in base alla quale un battito d’ala di farfalla avrebbe provocato un tornado in Texas, poteva considerarsi un paradosso ipotetico supportato da calcoli matematici, oggi il cosiddetto “Effetto farfalla” è divenuto una sconvolgente realtà. D’accordo essere tutti interconnessi, ma certificare la totale dipendenza di una comunità nazionale non dai fattori produttivi endogeni al proprio sistema economico ma dalle variabili nei processi di altre catene di produzione del valore globale, è stato come scoprire che il re è nudo. La nostra manifattura, ancor prima che il virus facesse capolino in Italia, ha cominciato ad arenarsi per effetto del rallentamento dell’arrivo di beni e di materie prime dalla Cina. Viceversa, il nostro export è andato in sofferenza a causa della caduta degli ordinativi dall’estero. Se c’è una cosa che questa epidemia ci ha insegnato è di ricominciare a guardare in casa nostra per comprare e vendere e a riconsiderare il valore aggiunto che, a questo punto, le filiere corte sono in grado di assicurare. Non si tratta di fare gli autarchici, ma di prestare maggiore attenzione al mercato interno, apportando dei correttivi alle linee di sviluppo industriale oggi eccessivamente dipendenti dagli andamenti di mercato dell’export. Si pensi al caso spinosissimo del comparto turistico. Non vi è dubbio che il settore sia stato penalizzato oltre misura dall’ondata di disdette piovute dall’estero sui tour operator o direttamente sulle strutture alberghiere.
La prossima estate è compromessa. Gli stranieri non vogliono venire in Italia per paura del contagio e molte mete turistiche estere non accettano clienti italiani. Il Governo dovrà trovare un modo per aiutare il settore che, “nel 2015, ultimo anno per cui sono disponibili i dati del CST (Conto Satellite del Turismo), in Italia le attività connesse al turismo producevano un valore aggiunto di 88 miliardi di euro, pari al 5,9 per cento del totale” (fonte: Banca d’Italia), mentre nelle stime relative al 2019 l’impatto complessivo sul Pil, comprensivo dell’indotto e degli effetti indiretti, è valutato intorno al 13 per cento, di cui il 5,5 per cento è riferito all’impatto diretto della spesa dei turisti sull’economia nazionale. Per quanti aiuti lo Stato centrale riuscirà ad erogare al settore non saranno mai abbastanza per compensare le perdite accumulate nel periodo. L’unica via d’uscita sarà d’incentivare la mobilità interna dei flussi turistici che cubano una platea di decine di milioni di potenziali utenti. Piuttosto che all’estero dove sarebbero guardati con sospetto, per i vacanzieri italiani è giunto il momento di riscoprire l’Italia, con le sue bellezze artistiche e paesaggistiche e con la sua enogastronomia insuperabile. Ma il Coronavirus è solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso che era colmo da tempo. La Globalizzazione non è stata affatto il giardino di rose promesso. Accanto ad alcuni vantaggi si contano danni e squilibri. I dumping commerciali, sociali e fiscali sono figli della Globalizzazione, come la concorrenza sleale, l’abbassamento degli standard di qualità nella produzione delle merci, la contrazione forzata dei cicli di vita delle aziende sui territori, le pratiche di saccheggio industriale, l’insorgere dei fenomeni migratori incontrollati.
Dulcis in fundo, la spinta alla finanziarizzazione dell’economia in danno degli investimenti nella manifattura. Per non parlare delle conseguenze geopolitiche che il suo avvento ha determinato. Oggi apprendiamo che le potenze commerciali emerse nella fase ascendente della Globalizzazione non sono giganti ma tigri di carta, per usare un’espressione coniata dal dittatore cinese e padre della rivoluzione comunista, Mao Tse-tung. Il primo leader politico mondiale che ha capito tutto in anticipo e si è impegnato con successo a cambiare rotta rispetto all’onda mondialista è stato il vituperato Donald Trump. Quando, quattro anni orsono, lanciò lo slogan “America first” in pochi lo presero sul serio. Oggi, dopo aver provato la frusta della guerra dei dazi e della strenua difesa delle produzioni statunitensi, nessuno più è disposto a scherzare con l’Amministrazione di Washington. Un concetto sta passando in tutti gli angoli del pianeta: è finito il tempo in cui un soggetto economico arrembante potesse entrare indisturbato in casa d’altri, portargli via l’argenteria e sconquassargli il salotto senza subirne le debite conseguenze. È il momento di proteggersi, che non significa chiudersi al mondo ma semplicemente riequilibrare secondo criteri di equità le bilance commerciali dei singoli Stati nazionali. Oggi l’Europa dei poteri forti e dell’establishment getta la maschera e dice apertamente la sua sulla necessità di difendere le frontiere esterne del Continente dalle pressioni migratorie. In quest’ottica va interpretato il sostegno di Bruxelles al Governo di Atene che ha usato la mano dura nei respingimenti dei profughi siriani al confine con la Turchia. È stata la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, non Marine Le Pen, a gratificare lo Stato greco del titolo di “scudo d’Europa”. Con ciò dimostrando che la storia dell’accoglienza della disperazione del mondo nel Vecchio Continente è una favola a cui credono solo i multiculturalisti di casa nostra e talune invadenti gerarchie ecclesiastiche domiciliate nell’Oltretevere. Nessuna meraviglia che domani, nel solco tracciato da Donald Trump, sentiremo dire “Burundi first” e “Repubblica Togolese first”. Sarà il funerale della Globalizzazione spinta? Può darsi, di certo non indosseremo gramaglie per l’occasione. In compenso, resteranno i soliti aficionados delle frontiere aperte ad emulare il mitico Hiroo Onoda. Banzai!
di Cristofaro Sola