giovedì 20 febbraio 2020
Non so se, come qualcuno pensa, i ritardi e le incertezze della dirigenza cinese nel reagire al coronavirus provocheranno una crisi economica tale e susciteranno tali malcontenti e proteste popolari da provocare una crisi politica di così grande impatto, da mettere in crisi la leadership di Xi Jinping o addirittura il regime del partito unico in Cina. Vedremo.
Di certo essi rivelano il tallone di Achille di quel regime: l’estrema centralizzazione burocratica delle grandi decisioni politiche e amministrative e la mancanza di trasparenza e di veridicità del regime, la cui credibilità ne esce certamente incrinata agli occhi dei cinesi. Una simile crisi di credibilità avvenne in Urss nel 1986 dopo l’incidente nucleare di Cernobyl. Ma con una differenza sostanziale: che l’Urss del tempo non era capitalista e perciò il regime creava, oltre all’opacità e alle menzogne di ogni regime autoritario, anche povertà e penuria di beni per le sue assurde inefficienze e perciò non garantiva il benessere alla sua popolazione, come invece fa il regime cinese. I cinesi oggi accettano la limitazione dei diritti di libertà e sopportano la corruzione proprio perché negli ultimi 30-40 anni, grazie all’adozione dell’economia privata di mercato (il da molti deprecato capitalismo), associata a massicci investimenti pubblici, il regime “comunista” ha sollevato dalla miseria nera gran parte (oltre 700 milioni di persone) della sua popolazione. È stato forse il più grande miracolo economico della storia, che – va ricordato – è stato aiutato anche dalla decisione occidentale di fare entrare prematuramente, nel 2001, la Cina nel Wto (Organizzazione del Commercio Mondiale).
Ma la vicenda del coronavirus avrà anche un altro effetto rivelatore in apparenza secondario: contribuirà a smorzare almeno un po’ l’eccessiva autostima del regime e dello stesso Xi Jinping, il quale afferma spesso che il sistema attuale cinese autoritario e gerarchico è in tutto e per tutto “migliore” di quello occidentale liberal-democratico perché “più efficiente” (persino nella stessa gestione del capitalismo e della tecnica) e “più meritocratico”, almeno nella selezione dei dirigenti politici e degli amministratori. Il che è in parte vero, almeno per una certa fase. Qualcosa di simile – fatte le dovute differenze sopra menzionate – avvenne nel periodo (1925-35) di industrializzazione forzata dell’Urss di Josip Stalin.
Il suprematismo di Xi trova sfortunatamente un riscontro in un fatto più concreto e contemporaneo scioccante per l’Occidente: la sua Cina è più avanzata nelle nuove tecnologie 5G e in quelle della Intelligenza artificiale, che, combinate insieme, potrebbero realizzare una nuova rivoluzione tecnica di cui è difficile prevedere i fantastici esiti. Sarebbe (dovremmo forse dire sarà) la prima rivoluzione tecnico-scientifica che non nasca in Occidente, cullatosi sugli allori del passato e sulla convinzione che fossero i suoi valori di libertà e democrazia a permettergli il monopolio dell’innovazione e del benessere e a garantirgli il ruolo-guida nel mondo. Gli occidentali, gli americani in particolare, sono scioccati e atterriti da questi successi cinesi proprio come lo furono nel 1957 alla notizia che l’Urss aveva lanciato con successo uno Sputnik in orbita attorno alla Terra. Oggi non c’è con la Cina il clima di confronto militare che c’era nel 1957 con l’Urss ai tempi della Guerra fredda proprio perché la Cina di oggi non conta sul potere hard (quello militare), ma su quello soft: quello dei software, appunto.
Ci sono quindi buone ragioni per ritenere eccessivi i timori di una nuova vera Guerra fredda anche militare come fa Federico Rampini nel suo recente e imperdibile libro “La seconda guerra fredda”, dove paventa il pericolo detto “trappola di Tucidide”. In sostanza avverte che la guerra è spesso la reazione di una potenza egemone che si si veda superare da un’altra considerata da sempre subalterna sul piano tecnologico e potenzialmente anche su quello militare.
Conseguenza dei timori americani sono gli avvertimenti rivolti ai Paesi europei tentati di associarsi (come ha fatto l’Italia l’anno scorso) all’iniziativa cinese chiamata “Nuova Via della Seta” (Road and Belt): lo spettro dello spionaggio industriale e militare. C’è anche un altro pericolo: ed è che, come hanno già fatto in Africa, i cinesi forniscano ai regimi al potere anche le loro tecnologie per un controllo capillare delle popolazioni, che loro hanno sperimentato ed applicano nello Xinjang per il controllo dei riottosi uiguri musulmani. Come sempre avviene le tecnologie sembrano neutre, ma recano in sé anche elementi “culturali” imprevisti o indesiderati. Gli occidentali lo sanno bene: esportando una semplice aspirina, in apparenza neutra e innocua, si esportano “a cascata” anche l’idea di scienza, di libertà di ricerca con tutto ciò che segue.
A terrorizzare gli occidentali c’è anche il successo che l’espansione economica e tecnica cinese sta avendo in Africa (e in altre parti del mondo), dove sta costruendo strade, ponti, acquedotti e fognature, anticipando le spese e concedendo crediti. In quei Paesi agli interventi statali cinesi si aggiungono quelli di centinaia di migliaia di imprenditori privati che costruiscono fabbriche sfruttando senza remore i lavoratori e i bassi salari locali. Così facendo i cinesi stanno risolvendo problemi che gli occidentali non hanno mai risolto. Il prestigio ed il potere di influenza dell’Occidente in quei Paesi ne esce distrutto.
La Cina di Xi Jinping sta cioè portando una sfida globale all’Occidente che non è solo economica e commerciale, ma anche culturale perché propone il suo modello politico, un autoritarismo soft e tecnologicamente avanzato. Ciò facendo insinua in Occidente una contrapposizione tra valori (liberaldemocratici) e interessi materiali, che è insidiosa perché può fare proseliti in un Occidente, depresso dalla crisi economica e demoralizzato dalla continua decostruzione interna dei suoi stessi fondamenti culturali e delle sue stesse istituzioni (Tradizione, Stato nazionale, famiglia) ad opera di intellettuali, insegnanti, giornalisti e conduttori radiotelevisivi. Neo-marxismo, relativismo post-modernista e ideologia no-border fuse insieme nel politicamente corretto sono la palla a piede di un Occidente che ha perso la fiducia in sé e che si macera in una continua auto-colpevolizzazione e vergogna di sé, mentre la Cina confuciana mostra di superarlo in efficienza, innovazione e soluzione di problemi, come una volta faceva l’Occidente.
Dunque il microscopico coronavirus, oltre ai mali che porta, può rivelare molti aspetti dello scontro in corso tra due civiltà: quella occidentale individualista e quella cinese confuciana e “olistica”. Quest’ultima insegna ad anteporre, in nome del bene comune, i doveri ai diritti e interessi individuali, i quali invece sono la priorità metodologica in Occidente. Quest’ultimo è da secoli convinto che l’individualismo giuridico ed economico sia la formula risolutiva di tutti i problemi del mondo e cioè che da esso nasca non solo una società dei diritti e delle libertà, ma anche la garanzia di un primato scientifico-tecnico mondiale e con un benessere materiale e spirituale senza pari. Questo suo presunto universalismo è stato vero per secoli. Ma oggi a quanto pare non lo è più. O per lo meno è dubbio. Le conseguenze economiche e politiche dell’epidemia del coronavirus in Cina potrà aiutarci, insieme ad altri fatti e tendenze, anche a chiarire quel dubbio.
di Lucio Leante