Una smisurata illusione: Di Maio e i favoreggiatori

venerdì 31 gennaio 2020


In molti articoli ho riservato attenzione particolare e giudizi pungenti al fenomeno Di Maio (non maramaldeggio adesso!). E dico “fenomeno” a ragion veduta, essendo egli l’Apparso per mano dell’Elevato. Il modo in cui egli è (quasi) tramontato in un fallimento personale e partitico, mi conferma nel giudizio che ne ho dato nel corso del tempo in cui ha cumulato il più grande carico politico della storia recente. Il suo discorso d’addio, speriamo davvero, ha dimostrato ancora una volta e ancora di più su quali spallucce un Comico politicizzato avesse posto un potere così grande, conquistato mandando a quel paese il popolo italiano, un terzo del quale felice d’andarci.

Confesso di amare l’eloquenza, che consiste, specialmente a voce, nell’esprimere concetti profondi in forma elevata. Perciò ho sofferto nell’ascoltare l’acrimonioso sproloquio del Di Maio cadente, eppure ministro degli Esteri ancora in carica, purtroppo. Egli ha rivendicato come benfatte le cose malfatte per suo puntiglio. Neppure un cenno di autocritica o di modestia, solo millanteria ed albagia. Non è cambiato in nulla da quando lo definii, al suo primo apparire, un “miles gloriosus”, un fantaccino vantone. Continuo a stupirmi che sia stato preso sul serio, anziché spinto a fare i conti con se stesso. In situazioni simili e con un soggetto del genere, in Campania diciamo “chillo non s’ammesura”, quello non si misura. Il ministro degli Esteri, nientemeno, non sa e non vuole misurare se stesso con i parametri di valutazione comunemente accettati. Scambia i voti ricevuti da Beppe Grillo, a milioni, con un crisma di competenza e autorevolezza a lui, mentre conferiscono solo autorità. Di autorità egli s’è inebriato, avendo cumulato quella elettiva e politica con quella parlamentare e ministeriale.

Poteva riuscire un inesperto, uno alle prime armi riguardo alla gestione della cosa pubblica, nel buon governo di due pesanti ministeri (Lavoro e Sviluppo economico) contemporaneamente alla vicepresidenza del Consiglio, di un ministero fondamentale (Esteri) conservando la guida del più grande partito italiano? Egli era convinto di riuscire, e al meglio. Ed è tale convinzione che lo condanna irrimediabilmente. Una smisurata illusione lo ha portato a colorare di trionfalismo la sua vicenda pubblica, che invece ha connotati marcatamente negativi, sia considerando il profilo soggettivo sia i risultati oggettivi. L’ambizione poi è una virtù intrinseca dell’uomo politico ma, di per sé e da sola, risulta un pericolo per la collettività. Così giova forse al politico piuttosto che alla politica.

L’illusione e l’ambizione di Luigi Di Maio non sono state soltanto endogene, alimentate cioè dalla sua debordante autostima, ma pure esogene, inculcategli dal contingente contesto elettorale. E qui il “fenomeno” Di Maio appare discutibile dal punto di vista istituzionale fino a diventare un problema di democrazia tout-court, non solo perché “i politici dilettanti non sono di alcuna utilità” (Weber), ma soprattutto perché la “volonté générale”, che Di Maio ha inteso, all’evidenza, incarnare, seppure in sedicesimo, è in quanto tale pericolosa per la democrazia liberale, tendendo a straripare in un potere refrattario ai limiti della ragione e della realtà. Tra l’altro, “la democrazia non è il governo della folla: per espletare i suoi compiti, il parlamento deve dar posto alle menti migliori” (Mises). Chi può oggi negarne pertanto il declino? In generale nessuno, tranne uno sprovveduto, metterebbe di colpo un pericoloso tornio nelle morbide mani di una sartina, a meno di specifico apprendistato.

Eppure l’intero sistema politico, obbedendo ad una malintesa concezione del governo rappresentativo e della sovranità parlamentare, ha ammesso e ratificato tutto questo, senza riserve ed eccezioni, come un ideale. Con l’avallo di chi avrebbe potuto e dovuto impedirlo, Di Maio è stato insediato ai ministeri su proposta del presidente del Consiglio scelto da lui, essendo stato a sua volta preposto a capo partito dal garante (sic!) né candidato né eletto, con l’accettazione del presidente della Repubblica. Dentro e fuori il Parlamento hanno fatto come dice Ovidio: “Video meliora proboque, deteriora sequor”. Vedo il meglio e l’approvo, ma seguo il peggio.


di Pietro Di Muccio de Quattro