venerdì 24 gennaio 2020
Alla fine, si vota. Checché ne dica la sinistra, il verdetto delle urne di Emilia-Romagna e Calabria non sarà un normale test locale ma inciderà sulle sorti del Governo demo-penta-renziano. In particolare, l’esito emiliano-romagnolo, se dovesse dare ragione alla coalizione della destra plurale, segnerà il cambiamento di un’epoca. Che molti delle vecchie generazioni di simpatizzanti e militanti del liberalismo, del conservatorismo, del sovranismo e del tradizionalismo attendevano di vivere alla stregua dell’inverarsi di un sogno impossibile da realizzare. Già, perché l’Emilia-Romagna non è stata semplicemente una regione “rossa” al pari di altre in Italia. È stata la roccaforte, e la cassaforte, del comunismo italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale. Battere la sinistra lì è stata una chimera. È vero che a un tratto, grazie alla grande onda di speranza mossa da Silvio Berlusconi sul finire degli anni Novanta, la città di Bologna avesse conosciuto l’esperienza di un’amministrazione comunale di centrodestra sotto la guida dell’imprenditore Giorgio Guazzaloca, dal 1999 al 2004. Ma si è trattata di una meteora che non si è ripresentata nel cielo rosso del capoluogo emiliano-romagnolo.
Oggi, non Bologna ma tutta la regione potrebbe regalare alla destra il successo atteso da cinquant’anni, cioè dall’introduzione delle istituzioni regionali. E di questo, se dovesse accadere, dovremo essere eternamente grati a Matteo Salvini. Lui, e solo lui, pur con uno stile ruvido, a tratti urticante, sta trascinando la coalizione nell’assalto al cielo. Se il bersaglio della vittoria dovesse essere colpito sarà più che giusto concedere al vincitore il diritto di appellarsi al popolo italiano per chiedergli il consenso a governare non più solo la maggioranza delle regioni ma l’intero Paese. Se lo sarebbe guadagnato, mentre nessun diritto e nessuna scusa potrebbe più accampare una sinistra che, usufruendo di interessate simpatie interne alle istituzioni ed estere, continua imperterrita a occupare il potere a dispetto della volontà maggioritaria del corpo elettorale.
Intendiamoci: questo sarebbe lo scenario in caso di trionfo della candidata Lucia Borgonzoni. Tuttavia, la vittoria delle destra plurale non si misura soltanto sull’elezione del presidente. Altri dati devono essere osservati. Potrebbe, in ipotesi, anche spuntarla il governatore Stefano Bonaccini. Un voto dato sulla base di un giudizio limitato alla sua azione di governo potrebbe vederlo vincente. Bonaccini non correrebbe pericoli di tenuta, grazie a una cervellotica legge elettorale regionale, la n. 21 del 23 luglio 2014 parzialmente modificata dalla successiva legge regionale n. 23 – Capo VI del 6 novembre 2019, che garantisce al candidato che ottiene più voti un premio di maggioranza per rendere stabile la consiliatura per tutta la sua durata naturale. Cionondimeno, la coalizione di sinistra non potrebbe cantare vittoria, e di conseguenza trarne spunti di legittimazione popolare nella permanenza al governo del Paese, se il successo non riguardasse anche le liste dei partiti collegati al candidato presidente. Per effetto del voto disgiunto si potrebbe verificare la circostanza che il successo di Bonaccini non corrisponda a quello della sua coalizione.
Nel caso in cui la somma dei voti di lista dei partiti collegati alla candidata Borgonzoni dovesse prevalere sui competitori, e in particolare se la Lega dovesse travolgere il Partito Democratico, il problema del riverbero negativo del voto emiliano-romagnolo sulla tenuta del Governo centrale si presenterebbe ugualmente. Per paradosso, uno scenario di tal genere sarebbe ancora più eloquente, in senso punitivo per la sinistra, di una vittoria piena della destra plurale con la sua candidata alla presidenza. La lettura del dato elettorale sarebbe inesorabile: gli emiliano-romagnoli hanno premiato la persona del governatore uscente per come ha amministrato la regione nel quinquennio precedente ma hanno bocciato l’azione politica dei partiti della sinistra a lui collegati. Come non tenerne conto in sede governativa e parlamentare? Soprattutto, se a tale esito inequivocabile si accompagnasse un successo marcato della destra nell’altra elezione regionale, nella Calabria da decenni governata a fasi alterne dalla sinistra e dove di recente la protesta anti-partitica ha fatto la fortuna del Movimento Cinque Stelle.
Il Presidente della Repubblica, sgradevolmente sordo alla voce degli elettori, potrebbe continuare a ignorare l’indicazione che viene dal Paese mantenendo in piedi un governo politicamente delegittimato ma sostenuto da una discutibile maggioranza parlamentare risicata e raccogliticcia? Saremmo all’accanimento terapeutico nel tenere alla canna dell’ossigeno il “Conte-bis”, un morto che cammina.
Ma un altro dato merita attenzione la notte di domenica: il voto ai Cinque Stelle. Il movimento grillino è nel caos. Il suo leader, Luigi Di Maio, lo ha abbandonato a se stesso a poche ore dall’apertura delle urne. Le fughe dei parlamentari verso il Gruppo misto, alla Camera e al Senato, sono cronaca quotidiana. Di Maio, lasciando il timone, ha denunciato il verminaio nel quale il Movimento dei duri e puri si è trasformato nel volgere di pochi mesi. Interessi personali, ambizioni e desiderio di visibilità a fini di carriera hanno avuto la meglio sull’impegno assunto individualmente dai portavoce dei cittadini eletti in Parlamento ad attenersi alle regole della casa pentastellata. Il convincimento maturato dagli eletti Cinque Stelle di essere ai titoli di coda di una legislatura destinata a interrompersi prematuramente fa somigliare la casa di vetro, con alcune stanze segrete, disegnata dalla mente visionaria di Gianroberto Casaleggio col supporto di Beppe Grillo, alla Roma degli ultimi giorni dell’Impero, dilaniata dall’anarchia e dalla guerra intestina tra bande in lotta per un potere inesistente.
È facilmente ipotizzabile che un tracollo domenica, che precipiti il MoVimento, sia in Emilia-Romagna sia in Calabria, sotto la soglia psicologica del 10 per cento dei voti, scatenerà a partire dall’inizio della prossima settimana un fuggi-fuggi generale dei parlamentari grillini verso altre sponde partitiche. I porti di approdo più probabili saranno quelli della destra. Per un calcolo opportunistico agevolmente intuibile: posto che il governo giallo-fucsia ha la sorte segnata e la legislatura è destinata a cadere, meglio proporsi come la goccia che ha fatto traboccare il vaso sperando di ricevere in premio dai vincitori una ricandidatura che allungherebbe una vita politica nelle istituzioni parlamentari altrimenti destinata a terminare miseramente. Matteo Salvini, Giorgia Meloni e anche Silvio Berlusconi dovranno distribuire i numeretti per regolare la fila di onorevoli e senatori grillini in crisi di coscienza che si formerà fuori delle loro stanze. I fuggitivi faranno a gara ad accreditarsi come coloro che col proprio voto hanno condannato a morte la legislatura. Se ciò è vero bisogna prepararsi a vivere una lunga nottata nell’ormai imminente 26 gennaio. Non basterà accontentarsi di vedere quale tra i due contendenti in Emilia-Romagna verrà dato avanti dagli exit-poll. Si dovrà berlo tutto il calice degli scrutini per scoprire all’ultima goccia per chi il liquido del risultato sarà dolce nettare e per chi invece amaro fiele.
di Cristofaro Sola