martedì 7 gennaio 2020
Nella lingua inglese vi è un termine che più di ogni altro definisce l’operazione con cui gli Stati Uniti hanno eliminato il generale Qassem Soleimani: “brinkmanship”, che nella traduzione letterale significa “politica del rischio calcolato”.
Nonostante gli sforzi interpretativi, non si conoscono le informazioni in possesso dei Servizi americani che hanno indotto il Presidente Donald Trump a rompere la sua tradizionale prudenza e ad agire rischiando una degenerazione degli equilibri nell’area. Trump sino ad ora ha dimostrato di non volere le guerre, è molto più pacifista dei Bush e soprattutto di Clinton ed Obama. Durante il suo mandato neppure un nuovo conflitto è sorto in tutto il pianeta, mentre la politica dei suoi predecessori ha avuto le conseguenze che ancora adesso si hanno sotto gli occhi.
Trump non vuole le guerre, ma fa vedere che se le deve fare non ha esitazioni e gioca al rialzo. Così ha fatto con Kim Jong-un per risolvere la crisi coreana e i fatti gli hanno dato ragione. Così sta facendo con gli iraniani con cui ha dimostrato prudenza a seguito dell’attacco alle petroliere americane nel Golfo dell’Oman ma ai quali vuole impedire che facciano divenire l’Iraq un loro Stato satellite.
Al di là della strategia politica di Trump che evidentemente ha considerato Soleimani il burattinaio di tanti gruppi militari sulla scena mediorientale, ancora una volta però a farne le spese è stato il diritto internazionale.
Di fatto, al di fuori di un conflitto armato conclamato, è stato ucciso un vertice militare di uno Stato sovrano in uno Stato terzo con la tecnica delle cosiddette “esecuzioni mirate” o targeted killings, giustificate dai legali americani poiché rientranti nella Global war on terror, cioè in quella guerra globale al terrorismo che trova le sue fonti in alcune risoluzioni delle Nazioni Unite datate 2001, emesse a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle. A quell’epoca il Consiglio di Sicurezza qualificò il terrorismo internazionale una minaccia “alla pace e alla sicurezza internazionale” liceizzando il diritto della comunità internazionale all’autodifesa con tutti i mezzi e affermando la possibilità per gli Stati di prendere “tutte le misure ritenute necessarie per prevenire, contrastare e reprimere il fenomeno attraverso la cooperazione internazionale”.
Con la consueta ambiguità del linguaggio onusiano le medesime risoluzioni (in particolare la 1368 e la 1373) ribadiscono che tali azioni vadano intraprese nel rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, tralasciando peraltro di definire cosa si intenda per terrorismo, lacuna tuttora non colmata.
Nel caso in esame non è chiaro se le unità combattenti di Soleimani possano considerarsi “terroriste” e ancor meno se si possa invocare il principio della legittima difesa in mancanza di dati certi sulla minaccia. Non si sa, pertanto, se l’azione posta in essere possa essere collocata nell’ambito di un conflitto internazionale – che allo stato sembra non esistere – o di una semplice operazione di polizia che come tale avrebbe dovuto condursi con la collaborazione dello Stato ospite utilizzando la forza mortale come ultima risorsa.
È da precisare inoltre che l’uso delle basi da cui parte una missione di eliminazione mirata rende corresponsabile di eventuali violazioni del diritto lo Stato su cui tali basi insistono. È da escludersi conseguentemente che il drone MQ-9 Reaper possa essere partito da Sigonella, conocendo la meticolisità e l’esperienza degli uffici giuridici dello Stato Maggiore della Difesa italiano.
In conclusione, ancora una volta, è palese che vi sia un vuoto giuridico sia nella definizione di organizzazione terroristica che nelle misure volte a neutralizzare i membri che vi appartengono anche quando non costituiscano una minaccia immediata. Vuoto che va colmato se si vuole evitare che nel mondo valga sempre la legge del più forte a scapito dei più elementari principi democratici.
di Ferdinando Fedi