Il germe dell’intolleranza delle Sardine

lunedì 16 dicembre 2019


Con la manifestazione di Roma di sabato scorso, le Sardine hanno definitivamente precisato, se ce ne fosse stato bisogno, i chiari confini politici entro cui intendono muoversi. Quelli ovviamente di una sinistra composita, trasversale solo al suo variegato interno, che tenta disperatamente di ritrovare un senso e una identità che sembra irrimediabilmente perduta non solo in Italia. D’altro canto, mobilitandosi sin dall’inizio contro la destra sovranista incarnata da Matteo Salvini e utilizzando “Bella Ciao” come inno semi-ufficiale, non è che ci potevano essere soverchi dubbi circa la matrice ideologica di questa gente, sebbene si cercasse di veicolarla attraverso toni assai più soffusi rispetto ad analoghi fenomeni del recente passato.

Ma al di là delle sfumature, sullo sfondo di una operazione che il solito conformismo dell’informazione italiota, alla perenne caccia di novità da sbattere in prima pagina, sta contribuendo a gonfiare ben oltre il fenomeno in sé, non possiamo non notare una assai riconoscibile intolleranza, fondata sul cosiddetto pensiero unico, appartenente ad una certa sinistra radicale. Basta leggere i 6 punti programmatici enunciati a Piazza San Giovanni dal “capo sardina”, Mattia Santori, per farsene una idea piuttosto netta:

1) Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare.

2) Che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali.

3) Pretendiamo trasparenza dell’uso che la politica fa dei social network.

4) Pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti.

5) Che la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma. La violenza verbale venga equiparata a quella fisica.

6) Abrogare il Decreto sicurezza.

Ora, già iniziare da una serie di pretese imperative, dopo che ci si è riempiti la bocca per settimane con i valori astratti della democrazia, non sembra molto coerente per un movimento che fa dell’antifascismo un tratto distintivo. Vorrei ricordare a questo ennesimo signorino soddisfatto, il quale vorrebbe insegnare agli altri a vivere, che nelle democrazie liberali l’unica strada praticabile è quella tortuosa di cercare di convincere chi non la pensa come noi con proposte e argomentazioni. Le pretese, a mio modesto parere, appartengono più ad altre forme quasi estinte di democrazia in cui, laddove ancora esistono, domina un solo partito.

Tuttavia, tralasciando di approfondire ulteriormente l’evidente vena giacobina che pare ispirare il programma di massima delle sardine, trovo il punto numero 5 particolarmente inquietante. Partire infatti dal presupposto di imporre che “la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma”, quindi estendendola ad ogni possibile sfumatura interpretativa, contiene in nuce il virus letale dell’intolleranza politica, aprendo la strada a vie alternative al codice penale per eventualmente perseguire chi si presume ne sia responsabile. In tal senso, la cosa mi riporta ai fasti novecenteschi delle occupazioni universitarie, nelle quali a chi non condivideva la linea della protesta veniva impedito di parlare, bollandolo come soggetto antidemocratico. Ma non basta.

Equiparando “la violenza verbale a quella fisica”, in cui non si comprende chi sia chiamato poi a stabilirlo, ci si avvicina ancora di più a quei citati modelli cosiddetti democratici nei quali, nei casi storicamente più raccapriccianti, una frase sbagliata detta nel momento sbagliato poteva condurre di fronte al plotone di esecuzione. Naturalmente si tratta di estremizzazioni utilizzate per meglio chiarire il mio punto di vista. Malgrado ciò, occorre sempre ricordare che dietro le più note aberrazioni che il mondo ha conosciuto attraverso la politica ci sono sempre state le più nobili e fraterne intenzioni. In questo senso, ben vengano le adunate pacifiche e le proposte da queste ultime elaborate. Ma quando tutto questo sfocia in dettati imperativi e in tentativi striscianti di far passare l’avversario politico come nemico del popolo, esercizio diffuso tanto a destra che a sinistra, noi laici e liberali proprio non ci stiamo.


di Claudio Romiti