mercoledì 11 dicembre 2019
Il Censis, si sa, ci fotografa da oltre sessant’anni e, a cominciare dal suo archivio, sarebbe interessante una verifica fra la rispondenza della cosiddetta futura memoria con la realtà o verità.
Il fatto è che il Censis si differenzia dai soliti – oggi diremmo troppi sondaggi – non soltanto perché ha come oggetto-soggetto il Paese e non un partito o maggioranza, ma soprattutto perché la sua ricerca fissa la situazione economica e sociale fondandosi sui principi di una sociologia scientifica ripudiando quindi ideologie e partiti. Ciò che ha fatto sensazione in questa puntata del Censis è stata quella metà circa degli intervistati che afferma: “Ci vuole un uomo forte al comando”, esemplificando, alcuni, con Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan.
Ovviamente, il richiamo dell’uomo solo al comando non poteva non sollecitare ricordi e previsioni in collegamento con la nostra storia giacché un tipo alla Benito Mussolini rientra in pieno in una narrazione ad hoc, tenendo del resto presente che la sua è stata una detenzione del potere lunga almeno un ventennio, un record.
Non così dicasi – e lo conferma il rapporto del Censis 2019 – della situazione italiana nella quale, se per uomo forte si intendesse uomo che dura al potere, vale la pena ricordare che dal 2008 ad oggi di uomini poco o punto forti ne abbiamo avuti ben 7. Ed è abbastanza logico attribuire all’aggettivo “forte” una interpretazione meno “spettacolare” e più “normale”, nel senso dell’uomo che è capace di decidere, di fare, di dare una svolta. Ma non pare – allo stato delle cose politiche s’intende – che sia così facile trovarne uno, se è vero come è vero che la tendenza di non pochi partiti che contano è quella di ipotizzare un sistema elettorale basato sul proporzionale e quindi in sé abbastanza instabile quando, al contrario, la trasformazione del nostro sistema politico da parlamentare a presidenziale spalancherebbe le porte al modello dell’uomo indicato dalla metà degli intervistati dal Censis.
In realtà, questa esigenza va inquadrata nel contesto delle risultanze della ricerca del Censis nel senso e nella misura con le quali riflettono una società a dir poco complessa in cui lo stato d’animo degli italiani oscilla fra il pessimismo e l’incertezza, sullo sfondo di un grande cambiamento sociale che tocca tutti i Paesi occidentali, traducendosi in ansia, paura e, soprattutto, sfiducia: nel futuro, nella politica, in sé e negli altri.
È stato osservato che “dell’ansia è una prova evidente l’aumento del 23 per cento negli ultimi tre anni dell’assunzione di ansiolitici e sedativi, per non dire dell’uso di stupefacenti in grande crescita. La stessa denatalità che sta producendo l’invecchiamento del Paese, rientra in questo quadro preoccupante di incertezze e di sfiducia giacché per fare dei figli ci vogliono bensì dei soldi, ma nessuno li fa se manca una speranza”.
Dobbiamo pur sottolineare che la sfiducia nella politica coincide con quella nella democrazia, e che la stessa democrazia liberale rivela a sua volta i rischi di una crisi sol che si pensi che c’è una forza politica oggi al governo e ieri strombazzante i suoi proclami innovativi come la sostituzione della democrazia parlamentare (indiretta), ovvero l’unica forma sensata e possibile, in democrazia diretta con l’ausilio determinante della loro piattaforma Rousseau nel trionfo della demagogia populista dell’uno vale uno.
Ed è così inevitabile che solo il 19 per cento degli italiani parli di politica e che l’80 per cento circa non abbia fiducia nei partiti, che della politica sono gli strumenti. O meglio, erano. Ed ora assurti su un trono di carta fra l’indifferenza e il disinteresse generali subendo, inevitabilmente, una fatale metamorfosi, una vera e propria trasformazione: da idoli di una volta a casta di oggi.
di Paolo Pillitteri