lunedì 16 settembre 2019
Quello che Matteo Renzi si accinge a varare è un partito che ha come obiettivo immediato, pratico e concreto, di consentire all’ex premier di sedere al tavolo dove gli alleati di governo decidono i vertici delle società controllate dallo Stato. Si calcola che in scadenza ci siano almeno cinquecento caselle in Cassa Depositi e Prestiti, Enel, Terna, Inps, Agicom, Eni, Leonardo, Poste e società minori. Al momento a sostituire i manager in scadenza sono Giuseppe Conte, Nicola Zingaretti, Luigi Di Maio e Roberto Speranza o Pier Luigi Bersani, cioè il Presidente del Consiglio ed i leader dei partiti che compongono la maggioranza. Se Renzi esce dal Partito Democratico, crea suoi gruppi parlamentari e conferma il proprio sostegno all’Esecutivo giallo-rosso può rivendicare di entrare a far parte del tavolo ristretto dei massimi decisori. In caso contrario, deve rimettersi al buon cuore di Nicola Zingaretti che, come ha dimostrato la nomina dei sottosegretari e viceministri, non sembra essere tanto buono quando si tratta di soddisfare gli appetiti dei renziani.
Naturalmente ci sono anche altre ragioni a spingere Renzi a dare vita ad un proprio partito. A partire dalla necessità di tornare a separare il destino dei post-democristiani da quello dei post-comunisti fino ad arrivare alla speranza di attrarre tanti esponenti di Forza Italia ostili a Matteo Salvini e nostalgici del nazarenismo.
Ma il motivo più contingente e pressante è la necessità di partecipare in prima persona al banchetto delle poltrone che contano e che pesano nel nostro Paese. Perché è convinzione del “segretario ombra” del Pd che, se dovesse perdere questa occasione di conquistare casematte di potere reale, il suo ruolo nel Partito Democratico verrebbe progressivamente ridimensionato da parte di un segretario formale deciso a riconquistare in pieno la sua funzione di guida e di controllo della “ditta”.
Insomma, anche se nessuno conosce il simbolo del futuro partito renziano, tutti danno per scontato che dovrebbe essere quello della poltrona. Il ché non dovrebbe stupire più di tanto se si pensa che il Governo Conte nasce dalla necessità congiunta di Pd e Movimento 5 Stelle di non perdere le poltrone parlamentari in caso di elezioni anticipate, che lo stesso Presidente del Consiglio passerà alla storia come l’uomo della poltrona continua e che la motivazione ideale della attuale coalizione è rappresentata dalla preoccupazione che alla scadenza del mandato di Sergio Mattarella sulla poltrona del Capo dello Stato ci possa sedere un esponente del centrodestra. Si dirà che la politica è da sempre lotta per le poltrone e che Renzi non fa altro che applicare quella rivisitazione di un vecchio detto latino secondo cui “homo sine poltrona imago mortis”.
Ma se ogni motivazione ideale si riduce a far stare più comodo il proprio deretano, si può concludere che la vita pubblica italiana nell’era giallo-rossa è diventata una “imago mortis”?
di Arturo Diaconale