venerdì 30 agosto 2019
Dall’uso che si fa di questi due termini possono dipendere i destini politici di qualsiasi Stato.
Aristotele pensava che potesse costituire il preludio a un esercizio di potere dei demagoghi e Hobbes la considerava “un’aristocrazia di oratori”. Pascal osservò che, non essendosi potuto fare in modo che quel che era giusto fosse forte, con la democrazia si voleva fare in modo che quel che era forte fosse anche giusto, mentre Churchill sosteneva che fosse un sistema politico pieno di difetti, in grado di funzionare solo quando a decidere si era in due e uno era malato, ma che non era stato ancora possibile reperirne uno migliore. Marx la considerava l’ultima forma statale della società borghese e George Bernard Shaw pensava che consistesse nella nomina di pochi corrotti da parte di molti incompetenti. Henry Miller riteneva che fosse un sistema politico in cui dei ciechi guidavano altri ciechi e Jorge Luis Borges, con una battuta semiseria, la definì una volta “un abuso della statistica”.
Nonostante tutte le posizioni più o meno apertamente denigratorie della democrazia o le battute volte a evidenziarne i limiti o alcune lacune sostanziali, essa pare una forma di governo cui è ancora oggi difficile rinunciare. Verrebbe dunque da chiedersi perché si debba conservare tanta fedeltà a un modello politico che non sembra in grado di risolvere tanti problemi e che si rivela spesso, sotto diversi profili, decisamente poco efficace ed efficiente.
Per rispondere a questa eventuale domanda bisogna però mettere meglio a fuoco ciò che s’intende con questo termine culturalmente e storicamente tanto usato ed abusato, e per fare questo è necessario tentare di definire in una maniera chiara, e possibilmente succinta, quali sono i rapporti tra “Stato democratico” e “Stato liberale”. Poiché nella sede di questa breve riflessione sarebbe impossibile anche solo cercare di ricostruire la storia della loro complessa e articolata relazione, ci limiteremo a fornire una chiave di lettura che, per quanto possa risultare discutile e approssimativa, nonché poco originale, consenta di rileggere in maniera abbastanza perspicua le vicende storiche e ideologiche che l’hanno animata e resa tanto controversa, e cioè almeno, in breve, di fare un po’ di chiarezza in merito.
Lo “Stato liberale” prevede di garantire alcune libertà fondamentali, di cui i cittadini possono essere privati solo qualora siano essi stessi a non rispettarle a discapito di altri cittadini. Esso non garantisce – almeno nelle sue prime forme storiche – l’accesso ad uno “Stato democratico”, ma soltanto che, in qualsiasi forma di governo e di Costituzione, tali libertà e diritti vengano garantiti per tutti. Tra questi spiccano la libertà di pensiero, di espressione, di associazione, di fede religiosa e quella di possedere “beni”, sia che si tratti di beni di consumo sia che si tratti di mezzi di produzione per realizzare altri beni.
Qualcuno potrebbe chiedersi – e di fatto si è chiesto in passato e in più occasioni – per quale ragione tra le varie libertà garantite vi sia anche la proprietà privata. La risposta forse più succinta e chiara ad un tempo è quella fornita da John Locke, uno dei “fondatori” del liberalismo. La necessità di garantire il possesso dei propri beni, inclusi quelli atti a produrre altri beni, è riconducibile, secondo Locke, all’esigenza di far sì che ciascuno possa godere fino in fondo dei frutti del proprio lavoro, anche dando disposizioni su chi debba fruirne dopo la propria morte. Senza questo rispetto della proprietà privata e dei risultati del lavoro, dell'ingegno o della creatività di ciascuno potrebbe infatti venir meno la motivazione a lavorare in maniera efficace e produttiva, con la conseguenza che non verrebbero incentivate in maniera altrettanto efficace quegli interessi e quelle prerogative individuali che possono determinare un incremento del benessere economico della società nel suo complesso.
Nelle sue prime realizzazioni storiche ottocentesche, lo “Stato liberale” non coincide con lo “Stato democratico” perché, a differenza di quest’ultimo, non garantisce anche a tutti il diritto di voto e, quindi, la possibilità di partecipare all’elezione di coloro che sono designati a governare. Nell’Ottocento, si tendeva infatti a ritenere che solo coloro che fossero economicamente cointeressati al buon funzionamento dello Stato, e quindi che pagassero le tasse, avessero il diritto di prendere parte alla scelta di chi doveva governarlo, un po’ come, ancora oggi, può capitare con gli azionisti di una Società per azioni. Si pensava inoltre che avesse titolo per diventare elettore attivo solo chi avesse un certo grado d’istruzione, temendo che altrimenti le sue scelte politiche avrebbero potuto essere troppo facilmente condizionate e manipolate.
Progressivamente, con il venir meno di queste riserve, lo “Stato liberale” si è progressivamente trasformato in “Stato democratico” per volontà dei suoi stessi cittadini, che si sono sempre più diffusamente resi conto di come solo con la partecipazione di ciascuno al voto fosse anche possibile metterlo in condizione di tutelare in maniera efficace i propri diritti e difendere quelle stesse libertà previste dallo “Stato liberale”.
Per comprendere meglio la relazione tra queste due forme statuarie è tuttavia utile porsi almeno due domande: 1) Può esistere uno “Stato Liberale” che non sia anche democratico? 2) Può esistere uno “Stato democratico” che non sia anche liberale?
Alla prima abbiamo in parte già risposto quando abbiamo ricordato che le prime società liberali non erano democratiche. Quindi sì, è stato storicamente possibile e, almeno virtualmente, è ancora possibile, sebbene per far sì che ogni cittadino possa realizzare nella loro pienezza le libertà da esso previste esso tenda spontaneamente a trasformarsi in “Stato democratico”.
Per rispondere alla seconda domanda è invece opportuno interrogarsi su che tipo di Stato “democratico” potrebbe rivelarsi uno che non sia anche “liberale”. Ovvero, per esempio: se in uno Stato in cui tutti i cittadini siano stati chiamati ad eleggere i loro governanti, coloro che sono stati eletti a maggioranza decidessero di togliere a coloro che dissentono dalla loro azione politica le libertà previste dallo “Stato liberale”, saremmo ancora in uno “Stato democratico”?
La risposta a questa domanda non è così scontata come potrebbe sembrare, perché durante il Novecento si sono professati “democrazie” Paesi che, dopo una regolare elezione o una rivoluzione, tali libertà hanno confiscato. Eppure, è abbastanza chiaro che, con tale confisca, qualsiasi sedicente democrazia non potrebbe che ridursi ad una “dittatura di una maggioranza”, che è cosa ben diversa. Innanzitutto perché verrebbe tolta alle minoranze dissidenti la possibilità di partecipare con pieni diritti alla vita democratica, in secondo luogo perché questa circostanza ridurrebbe drasticamente la possibilità per tutti i cittadini di adoperarsi per la sostituzione dei propri governanti, facendo così venir meno una delle sue prerogative essenziali, che consiste proprio nel poter correggere per via pacifica e normata da regole condivise l’azione di qualsiasi governo procedendo, attraverso nuove elezioni, a un ricambio degli stessi governanti.
Per questi motivi, le cosiddette “Democrazie popolari”, “piramidali” o “dirette”, o comunque quelle che abbiano rinunciato per diversi motivi a conservare i diritti previsti dallo “Stato liberale”, non possono essere considerate vere democrazie perché in esse non tutti i cittadini sono posti in condizione di esercitare tali libertà e di contribuire così “liberamente” alla scelta delle persone cui affidare il governo. Il fatto che esse si siano poi storicamente rivelate dei regimi totalitari più o meno “perfetti” non costituisce quindi una concomitanza casuale.
Per chiarire meglio cosa si debba intendere con “Stato liberale” è necessario tuttavia sgombrare il campo da un altro equivoco frequente, ovvero quello che tende a confondere “Liberalismo” e “Liberismo”. Il primo è una teoria politica che si sviluppa grosso modo fin dalla seconda metà del XVII secolo e che getta le basi per il futuro “Stato liberale”; il secondo è una dottrina economica che si sviluppa circa un secolo più tardi e che, pur prendendo le mosse dal liberalismo politico, se ne distingue integrandolo con una concezione di ciò che dovrebbe rivelarsi più propizio per il benessere economico sia dei singoli individui sia della comunità.
Ora, i vari tipi di governo che si trovino a succedersi nell’ambito di uno Stato liberal-democratico possono decidere di seguire le linee direttive di una politica liberista – che è basata sul convincimento che lo Stato debba interferire il meno possibile sull’economia in modo da non ostacolare l’azione della “mano invisibile” della concorrenza e sull’idea che la libera circolazione delle merci e dei capitali sia destinata ad accrescere il benessere di tutti paesi che partecipano a tale “libero scambio” – oppure non assecondarle affatto, e optare per un tipo di politica economica in cui l’azione dello Stato sia più marcata – in modo per esempio da favorire una ridistribuzione del reddito a favore dei ceti meno abbienti – e che adotti eventualmente misure protezionistiche per arginare gli svantaggi che dovessero eventualmente essere imputati ad una politica liberoscambista.
Le politiche socialdemocratiche o comunque di tipo keynesiano che hanno caratterizzato molti governi europei nella seconda metà del Novecento non hanno attuato una politica liberista, mentre altri hanno intrapreso questa linea di condotta. Si tratta in effetti di due opzioni sempre possibili e ancora attuali, rispetto alle quali è sempre vivo il dibattito tra le varie forze politiche all’interno degli Stati liberal-democratici. Lo stesso Keynes, per esempio, pur essendo un liberale, non era un liberista, e la sua teoria economica costituisce anzi, ancora oggi, un riferimento importante per tutti quei governi, d’impronta socialdemocratica o laburista, che non s’ispirano ad un modello di sviluppo economico di tipo liberista.
Alcuni ritengono che una politica non liberista - e quindi sensibile all’ipotesi per cui, favorendo una migliore distribuzione del reddito tra i vari ceti sociali, sia anche possibile migliorare l’efficacia produttiva e la vita di un Paese e di una comunità – comporti una qualche lesione del principio che garantisce, all’interno di uno “Stato liberale”, il godimento del pieno possesso dei propri beni e dei propri mezzi di produzione. Attraverso un’eccessiva pressione fiscale per esempio, secondo alcuni fautori del liberismo, verrebbe intaccato tale principio. In realtà, sebbene in quest’ipotesi i cittadini, o alcune loro categorie, siano realmente espropriati di una quota dei loro beni che può loro sembrare eccessiva, ciò costituisce solo una differenza di grado e non una discriminante qualitativa. Gli stessi liberisti, infatti, non possono fare a meno di ammettere che un sistema di tassazione efficiente è necessario per il buon funzionamento dell’economia di qualsiasi Stato e che non ve n’è alcuno in grado di rinunciare ad esercitare una qualche pressione fiscale sui propri cittadini.
La democrazia liberale lascia aperte dunque entrambe queste possibilità: in essa si possono infatti adottare politiche liberiste o socialdemocratiche, nonché tutte le possibili soluzioni intermedie. Spetta ai governi eletti decidere quale intraprendere: il ventaglio di opzioni di politica economica che sono realizzabili partendo dall’una o dall’altra offre una gamma di scelte molto ampia, ciascuna delle quali è in grado di produrre effetti anche molto diversi.
Riassumendo, la democrazia – così come l’abbiamo qui intesa – non garantisce affatto un buon governo, né scelte politiche che tengano conto in maniera adeguata dell’esigenza di superare eventuali “ingiustizie” sociali, né che vengano sconfitte la corruzione e l’evasione fiscale, o risolte le inefficienze burocratiche. Essa s’impegna soltanto a garantire ai cittadini la possibilità di sostituire quei governati che, a parere di una maggioranza di elettori, si siano rivelati inadeguati per aver operato in maniera complessivamente insoddisfacente rispetto alle finalità che loro stessi avevano indicato di voler perseguire e in virtù delle quali erano stati probabilmente eletti.
Nel fare questo, essa s’impegna tuttavia a tutelare anche i diritti delle minoranze. Più specificatamente, in un regime democratico – come scrive Norberto Bobbio – “nessuna decisione presa a maggioranza deve limitare i diritti della minoranza, in modo particolare il diritto di diventare, a parità di condizioni, maggioranza”.
Ad alcuni potrebbe sembrare troppo poco. Per qualcuno potrebbe risultare una forma costituzionale e statuaria complessa che alla fine rischia di partorire un topolino, ma le alternative ad oggi sperimentate si sono rivelate, come già al tempo di Churchill, largamente peggiori. In altri termini, questo “poco” potrebbe costituire la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per far progredire la società verso forme di governo migliori, ovvero in grado di garantire in maniera efficace il perseguimento di quegli obiettivi che la maggioranza dei cittadini indica di volta in volta come prioritari o irrinunciabili senza far loro correre nel contempo il rischio di essere privati delle loro libertà fondamentali.
Come ha posto in evidenza Karl Popper, anche la democrazia, come la scienza, procede per tentativi ed errori. Così come la scienza accetta il responso delle sue sperimentazioni, la democrazia accetta quello delle urne. Esse condividono un metodo che tiene conto dei riscontri oggettivi della natura o della storia: entrambe sanno sopportare il peso di una certa relativa ignoranza e devono essere pronte a rivedere e correggere le proprie strategie, talora in maniera radicale.
In questo senso, essere realmente democratici significa nutrire fiducia nella possibilità che un popolo ha, o dovrebbe avere, di correggere la rotta intrapresa dai propri governanti eleggendone altri; ma significa anche che ognuno ha tra i suoi doveri anche quello di rispettare i diritti e le opinioni delle minoranze, le quali, pur dovendosi rassegnare a svolgere, almeno per un certo periodo, un ruolo di opposizione, non dovranno mai essere poste per questo in condizione di sentirsi come cittadini di secondo grado.
Chi crede nella democrazia pensa che debba essere garantito anche all’ultimo individuo, al più povero come al più ignorante o a quello più isolato, che non concorda con nessuno o che è restio a riconoscersi nell’azione di qualsiasi governo, il godimento dei propri diritti civili e politici fondamentali, quali sono in effetti previsti e tutelati, in modi diversi, dalle Costituzioni di qualsiasi Stato liberal-democratico. Chi non crede in questo, ha rinunciato a credere nella democrazia, nei suoi valori e nelle libertà che essa impone di tutelare.
di Gustavo Micheletti