lunedì 26 agosto 2019
L’Amazzonia è diventata la Sierra Maestra del Ventunesimo secolo, il luogo simbolico sul quale convergono non solo i rivoluzionari ma anche i progressisti di tutto il mondo, gli orfani del “Che”, i relitti del Sessantotto e la loro innumerevole e variegata prole, e pure gli zelanti adepti del politicamente corretto.
Per una serie imprevedibile di circostanze, l’Amazzonia in quanto area geografica e in quanto territorio culturale più simbolico che concreto, si è trasformata nel nuovo terreno dal quale quei rivoluzionario-progressisti traggono una linfa e un’energia che, in base all’essenza stessa della loro ideologia, devono reperire e suggere dall’avversario e dalla conflittualità con esso. E quindi devono produrre, addirittura inventare sempre nuove aree, teoriche o reali, in cui incubare lo scontro.
Nell’ottica di questo schema, l’Amazzonia è diventata nelle ultime settimane un punto caldissimo (anche in senso termico) della geopolitica globale, l’epicentro di un vorticoso intersecarsi di interessi politici e, inevitabilmente, economici, di volontà ideologiche e culturali dai più svariati accenti, che da un lato riesuma lo spirito di Porto Alegre (dal luogo del famigerato Forum sociale mondiale) e dall’altro mostra il volto feroce del politicamente corretto, uniti nel nome di un ecologismo finto e ipocrita, molto gretino e poco meditato, che si muove sull’onda di una moda e non nel profondo della coscienza. Moneta falsa, spacciata per autentica.
L’analogia con la Sierra Maestra cubana è all’ingrosso dal punto di vista storico, ma molto precisa dal punto di vista ideologico: come i barbudos castristi rovesciarono il dittatore Batista, così i rasati progressisti vorrebbero disarcionare il presidente democraticamente eletto Jair Bolsonaro, che considerano un violento autocrate, un pericolo per la democrazia non solo in Brasile ma in tutto il mondo, perché il suo orientamento politico potrebbe essere imitato e diffondersi in altri Paesi. Chi non si inserisce nell’orizzonte progressista, nello schieramento della sinistra genericamente definibile, è automaticamente antidemocratico, autoritario nella migliore delle ipotesi, fascista nella peggiore. Perciò viene aggredito sempre e comunque.
Niente da fare, i sinistri di qualunque livello, di qualunque sfumatura o latitudine sono sempre identici a se stessi, anche il mezzo-sinistro Macron: ogni pretesto è valido per attaccare l’avversario politico o culturale. Incorreggibili e spesso anche impuniti: l’unica arma ancora efficace è infatti lo smascheramento dei loro inganni e delle loro menzogne. Macron, preso come esempio di un vasto insieme, denuncia la presunta ignavia e l’ancor più presunta azione causale del presidente brasiliano Bolsonaro nei confronti della devastazione della foresta amazzonica e degli attuali incendi. Brandisce la minaccia delle sanzioni come una spada di Brenno: vae victis. Novello Brenno, Macron maramaldeggia, forte delle parole d’ordine politicamente corrette, lanciando strali e intimidazioni, ma la verità delle cose non è facilmente occultabile.
Che l’Amazzonia sia un pretesto, è evidente dal comportamento che i capi del sinistrismo occidentale avevano adottato nei confronti dei presidenti brasiliani precedenti, Lula e Rousseff, entrambi coinvolti in tangenti petrolifere che avevano l’Amazzonia come centro di interessi, di sfruttamento e, purtroppo, anche di devastazione, come dimostrano anche gli incendi innescati da criminali che però con Bolsonaro non hanno nulla a che vedere e in ogni caso nulla di più di quanto avessero a che fare con Lula o Rousseff.
Se lo sfruttamento dell’Amazzonia viene appoggiato dagli amici, va bene, ma se a non riuscire ad arginarlo è un nemico, allora viene condannato con la massima violenza retorica (e speriamo solo retorica). Mai visto nessuno dei capi mondiali della sinistra scagliarsi contro Dilma Rousseff all’epoca (recentissima, per altro) dello scandalo Petrobras, del cui Consiglio di Amministrazione la Roussef è stata presidente fino al 2010.
Nessuno ha denunciato le tangenti di Lula provenienti da quella stessa azienda che sfrutta i giacimenti petroliferi amazzonici con i medesimi metodi e i medesimi effetti ambientali negativi che oggi i progressisti à la Macron rinfacciano a Bolsonaro. Nessuno di loro ha alzato nemmeno un dito, nemmeno un sopracciglio.
Invece oggi tutti contro Bolsonaro. La disparità di trattamento è evidente: i compagni, anche se sbagliano (commettendo reati o crimini), restano tali e vanno difesi; gli avversari vanno invece attaccati, anche se non sbagliano, e perciò va costruito ad arte il caso, secondo una logica vecchia ma sempre vigente, creando il bersaglio opportuno al momento giusto.
Ma l’Amazzonia è oggi al centro di una campagna molteplice, non solo politica ed economica, ma anche spirituale e religiosa. Dal 6 al 27 ottobre prossimi si svolgerà infatti il Sinodo per l’Amazzonia, voluto da Papa Bergoglio con l’obiettivo di mettere al centro della riflessione ecclesiastica (teologica e politica al tempo stesso) il problema dei popoli sudamericani indigeni, che Bergoglio ritiene essere stati oppressi e in parte anche soppressi dalla violenza occidentale e dal suo infernale sistema economico, il capitalismo. Uno dei principali obiettivi del Sinodo amazzonico sarà infatti la definitiva consacrazione della teologia della liberazione come teoria fondamentale del nuovo corso bergogliano, e quindi come nuovo Vangelo della Chiesa cattolica. Obiettivi ambiziosi, di portata planetaria e di lunga gittata storica, dal preciso segno teologico liberazionista e ideologico neo-comunista.
Macron si erge ad ambientalista con lo scopo di attaccare un suo nemico politico e di rendere, sia pure indirettamente, un servizio all’economia francese; Bergoglio fa l’indigenista con una prospettiva più articolata ma non meno strumentale, che serve a uno scopo ideologico, nell’ottica di una teologia politica dichiaratamente terzomondista e anti-occidentale. Se Macron fa l’ecologista con l’Amazzonia degli altri, per colpire gli avversari di destra, liberalconservatori e sovranisti, Bergoglio fa l’indigenista per trasformare la Chiesa cattolica, romana e apostolica, in Chiesa eclettica, terzomondista e ideologica, e anche con un obiettivo più ampio, commisurato alla portata spirituale della Chiesa stessa: per ridimensionare la civiltà occidentale nella prospettiva, sul lungo periodo, di uno spostamento del baricentro mondiale.
L’Amazzonia è oggi al centro di tutti questi interessi, di natura diversa ma dai medesimi obiettivi: Macron, Bergoglio, la Commissione Europea, l’ONU, uniti nella lotta contro i loro nemici sparsi nel mondo: Trump, Bolsonaro, Netanyahu, Orbán, Le Pen, Salvini, Meloni e tutti i liberalconservatori anti-comunisti che non accettano l’inciucio e il conseguente giogo popolar-socialista.
Non è la salvezza dell’Amazzonia dunque lo scopo autentico dell’azione di Macron e dei vari paladini dell’ambientalismo rosso o rosaceo, ma è la sconfitta di Bolsonaro, del quale si teme la linea politica e culturale, la forza della sua azione (come ha dimostrato il successo elettorale dello scorso anno) e la vicinanza del suo discorso alle posizioni dei liberalconservatori americani ed europei.
L’Amazzonia è al centro di una partita doppia, giocata cioè su due tavoli e riguardante numerosi giocatori; è la classica fava con la quale si spera di catturare due piccioni: si aggredisce Bolsonaro attraverso il punto oggettivamente (e, data la sua immensa estensione, forse anche inevitabilmente) debole dell’Amazzonia, sia per impallinare Bolsonaro stesso sia per avventarsi contro i suoi numerosi analoghi di altri Paesi. E’ avvilente però rendersi conto che l’Amazzonia è solo un’occasione per colpire gli avversari, un casus belli pretestuoso.
Salvo una tardiva inversione di rotta da parte di Macron, che qualche ora fa ha abbandonato l’arma delle sanzioni per lanciare un’iniziativa mondiale, ma ancora a livello teorico e, c’è da temere, meramente retorico, per la salvezza dell’Amazzonia, l’unico che, finora abbia offerto aiuto concreto (aiuti sono stati subito inviati dalla vicina Argentina di Macri, ma di entità ovviamente limitata data l’ampiezza del disastro), dimostrando fattualmente di avere a cuore la condizione della foresta amazzonica, è quello che gli ambientalisti considerano il loro peggiore nemico, quel Donald Trump che non ha ceduto al ricatto pseudo-ecologista del protocollo di Kyoto, a quella grottesca maschera dietro a cui si cela la miscela fra il politicamente corretto e il nuovo terzomondismo, entrambi di casa nel Palazzo di Vetro; quel Trump che sembra sordo alle istanze dello sviluppo sostenibile e che invece oggi ha fatto la sola cosa che un ambientalista autentico, non cioè ideologicamente strumentale, poteva e doveva fare: offrire tutto l’aiuto possibile per affrontare, in un territorio vastissimo e di difficilissima accessibilità, l’emergenza incendi e gestire una situazione di oggettiva sofferenza ambientale.
Trump ha offerto l’aiuto, tecnologicamente avanzato e finanziariamente solido, degli Stati Uniti, mentre i macroncini europei sono stati capaci, finora, solo di minacciare sanzioni e, in extremis, di vagheggiare un piano, magari sotto l’egida dell’ONU, garanzia politica suprema, per la salvezza dell’Amazzonia. La drammatica sostanza di tutto ciò è: che l’Amazzonia continui, ancora per un po’, a bruciare, purché con essa si sbricioli anche Bolsonaro. Questo è il vero volto dell’etica politicamente corretta: una farsa, la morale declamata e non praticata, della quale si ammanta l’ambientalismo piegato agli interessi dell’ideologia sinistrorsa.
di Renato Cristin