Salvini e la Giustizia

venerdì 3 maggio 2019


C’era una canzone di Mina che sembra fatta (quasi) su misura per un leader che oggi è al Governo, ma ieri in Ungheria e domani chissà.

Matteo Salvini - che è indubbiamente un capo, inteso soprattutto come traduzione di leader, e non soltanto nel suo movimento-partito ma nel Governo e nel Paese (in Europa si vedrà) - ha il dono della parola. Intendiamoci, come leader possiede di certo altre doti, a cominciare da quelle politiche, se è vero come è vero che resta, di fatto, l’uomo di punta, il personaggio più in vista, il protagonista da prima pagina di una coalizione di governo e potere alla quale, semmai, è mancata fino ad oggi quella che si chiama opposizione. Ed è forse anche per questa ragione che l’eloquio salviniano si eleva e si espande, più di una volta al giorno e non soltanto in viva voce ma soprattutto nelle tivù, a cominciare da quella di Stato a proposito della quale, peraltro, il collega parigrado di governo Luigi Di Maio, è stato per così dire richiamato dal Consiglio d’Europa con l’accusa di minare l’indipendenza dei mass media tramite manipolazioni indirette; accusa che spicca particolarmente alla vigilia della giornata mondiale della libertà di stampa.

Matteo Salvini non s’è tirato addosso, almeno per ora, imputazioni simili a livello europeo, benché critiche anche aspre gli giungano, e non a caso, dai politici del suo Paese, finiti, come si diceva, a ricoprire il ruolo di un’opposizione senza infamia e senza lode. I più attenti critici ritengono che sia anche questa una delle ragioni dell’imperversare mediatico salviniano non tanto o non soltanto in quel suo crescendo day-by-day, ma secondo una logica liturgica, una sorta di dovere in cui l’esserci è diventato obbligo e l’apparire una necessità, notte e giorno.

Sempre i più cattivi, in questa analisi comportamental-politica del leader leghista, aggiungono che il dono della parola è tanto più usato (se non abusato) quanto meno ne seguono i fatti, le realizzazioni, i cosiddetti risultati. E si cita, en passant, il caso Siri, non tanto e non solo per la vicenda giudiziaria in sé, quanto per l’iniziale approccio di Matteo Salvini in difesa del suo sottosegretario con parole decise e secche, sia per esaltarne le doti operative sia per ribadirne l’innocenza rispetto alle accuse della Giustizia che lo stesso imputato ha respinto con una fermezza che non pare sia servita a fermare il corso delle decisioni del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e, soprattutto, del suo “vice” Di Maio, entrambi invitanti Siri a rimettere il mandato, anche per dare, con le sue dimissioni, il buon esempio. Ci sono le carte, così si dice.

La Giustizia è ritornata dunque sulla scena e non pochi ritengono che non se ne sia mai andata. Ma il punto vero non è questo o non solo questo. E non può non riguardare proprio quel Matteo Salvini che, per dirla papale papale, aveva fatto fuoco e fiamme, anche nel corso della sua visita al premier ungherese, in difesa del sottosegretario, tanto da rafforzarlo nel suo rifiuto di rassegnare il mandato nelle mani del Presidente del Consiglio. Questo fino a poche ore fa perché, come ricordava il grande e indimenticabile Winston Churchill, things change, soprattutto in politica se è vero come è vero che la non colpevolezza di Siri resta bensì un punto fermo ma non tanto da bloccarne le dimissioni.

Con quel che segue, si capisce, fra cui non è difficile sentire risuonare la canzone di Mina col suo significato, nel senso che lo stesso Salvini poteva (altri aggiungono un “doveva”) aprire una discussione non tanto o non soltanto in merito alla decisione dei magistrati, ma soprattutto in riferimento ad un obbligo dimissionario che è tale o è diventato tale dall’avvento delle leggendarie “Mani Pulite” alle quali il grillismo di lotta e di governo ha guardato e guarda con devozione per dir così religiosa, pretendendone dagli avversari e dagli alleati rispetto, lo stesso che in quei tempi anche i seguaci di Umberto Bossi mostravano.

Intendiamoci, il leader leghista è diverso e qua e là si lascia scappare un cenno a proposito dell’elettività dei giudici, anche se non in riferimento alla questione di Armando Siri, il cui esito, più che nelle stelle, sta nelle famose carte. Che parlano...

 


di Paolo Pillitteri