lunedì 4 febbraio 2019
Non pare vi siano dubbi a proposito della distanza fra Lega e M5s, ritenuta incolmabile anche da parte di docenti ed esperti di comunicazione politica e media relation. Ad esempio, Andrea Altinier sollecitato da “Italia Oggi” ha per così dire fotografato la situazione fra i due alleati di governo analizzando le entrambe strategie e rilevandone subito gli errori commessi dai pentastellati, per non dire delle gaffe di Danilo Toninelli e Alfonso Bonafede fra cui il goffo tentativo di mettersi la divisa penitenziaria per imitare Salvini, tanto più che “giunti al governo hanno gradualmente abbandonato i loro simboli, i loro valori e quindi la loro identità facendo perdere loro consensi ed appeal. Lo abbiamo visto nella loro narrazione che si è fatta sempre più oscillante, perdendo uniformità e coerenza”. E non si può non aggiungere che allo stato delle cose sembra difficile che riescano a riattivarla e lo stesso ritorno di Alessandro Di Battista non sta dando gli effetti sperati. In questa fase non vi è alcun dubbio che sia Salvini a dettare la linea, e i grillini inseguono. A simili considerazioni non poco severe si può comunque giungere a una considerazione di fondo. Nel senso che la politica contestatrice e arruffapopoli di Grillo si è bensì giovata di successi elettorali stando all’opposizione ma, trasferita al governo, fra le mura di Palazzo Chigi, assediata dai problemi non più oggetti e soggetti di proteste, ma di proposte e di risposte, quella politica ha mostrato tutti i suoi limiti, incapacità, impreparazioni. Con effetti e successi salviniani di non poco conto. Soprattutto, per quanto attiene alla sua più vera politica. Quella nei confronti dell’immigrazione.
Ma c’è un problema di fondo, peraltro costante nella storia delle nostre diverse repubbliche costrette a fare i conti, come ha ben rilevato il nostro direttore, con una repubblica altra e diversa ma pur presente e costante, la Repubblica delle Toghe. Non poteva non derivarne un conflitto, una battaglia del tutto speciale, ma con finale fra vinti e vincitori. Una guerra fra politica e toghe appunto, che la vicenda Salvini-Diciotti si porta dietro proiettando nell’immediato futuro un analogo conflitto ma interno sia alla maggioranza che al movimento di un Grillo cui va storicamente riconosciuto il primo premio in giustizialismo. In questi giorni il processo a Salvini è dunque lo specchio del conflitto fra politica e magistratura. Ma, se ci sarà, non il solo ministro dell’Interno ne sarà partecipe, ma l’intero governo. Giacché la scelta salviniana è stata la scelta di tutti. E innanzitutto, della maggioranza. Insomma, il caso Salvini è indubbiamente un caso politico per il governo, sia nell’ottica di una opzione per farsi processare tutti, da Toninelli a Di Maio a Conte a Bonafede, sia negando un’autorizzazione a procedere cui qualche giorno fa il Co-vicepremier Di Maio ha, invece, dichiarato di votare a favore per consentire a Salvini, come desiderava, di farsi processare. Salvini, comunque, non mostra oggi alcuna voglia d’essere trascinato in un’aula di giustizia. Tanto più che può giovarsi di un’altra aula, quella del Senato, istituzionalmente chiamata, oltre al garantismo, ad una scelta squisitamente politica. “Et plus ça change, plus c’est la même chose”, verrebbe voglia di chiosare, insieme ad un polemista francese del secolo scorso ché, anzi, col passare delle repubbliche, rischia di tramontare la stessa necessità di fondo della Polis. Una qualità, anzi, una forza indispensabile per la politica ovvero la sua autonomia sullo sfondo. Oggi il governo a due non riesce, comunque, a nascondere un intrinseco nervosismo. Laddove, l’impeto di Salvini, col suo “Possono denunciarmi ogni giorno, ma avanti cinque anni!”, dà più l’impressione di una speranza che di una certezza.
di Paolo Pillitteri