giovedì 20 dicembre 2018
Ieri, la Commissione europea ha comunicato ufficialmente lo stop all’avvio della procedura d’infrazione per disavanzo eccessivo ai danni dell’Italia. Una buona notizia, da prendersi così com’è. Non chiedetevi chi, alla fine del lungo braccio di ferro, sia risultato il vincitore e chi invece lo sconfitto. Da subito è stato chiaro che, da entrambe le parti, i petti rigonfi e i palchi fatti roteare minacciosamente nell’aria, erano soltanto momenti suggestivi della danza rituale degli ungulati che simula la lotta tra maschi capibranco.
La Commissione aveva necessità di ribadire l’efficacia delle regole che disciplinano i rapporti tra gli Stati membri e le istituzioni comunitarie; il Governo giallo-blu voleva che il suo progetto di Bilancio non venisse svuotato dei principali contenuti. L’accordo raggiunto soddisfa ambedue le esigenze. L’Italia del 2019 vedrà il reddito di cittadinanza, sebbene in formato “small”, ed un assaggio di “Quota 100” per l’accesso all’età pensionabile. La Commissione europea potrà consolarsi sapendo di aver costretto l’Esecutivo italiano a contenere la stima di Deficit al 2,0 per cento del rapporto Deficit/Pil, in netto calo rispetto al 2,4 per cento previsto dalla Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza. E, soprattutto, di aver ottenuto da Roma l’abbassamento della stima di crescita del Pil dal +1,5 per cento, nel 2019, al +1,0 per cento, complice l’annunciata recessione. Il trend di riduzione del disavanzo continuerà nel 2020 all’1,8 per cento e nel 2021 all’1,5 per cento.
Per il ministero dell’Economia non si è trattato del classico gioco delle tre carte. Per raggiungere l’obiettivo di deficit nel 2019 al 2,0 per cento (che non è l’annunciato 2,04 per cento) è stato necessario procedere ad un taglio secco della spesa programmata di circa 10 miliardi di euro. Ciò è stato possibile grazie ad un lavoro di affinamento dei conti di previsione sul costo delle riforme progettate ed all’inevitabile pesca a strascico di risorse depositate negli anfratti dei capitoli di spesa del Bilancio. Per il momento i protagonisti italiani della complessa negoziazione con la Commissione europea, come l’ha definita lo stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte nel corso dell’intervento di ieri al Senato, sono riusciti ad evitare il peggio al Paese.
Si poteva far meglio? Certamente sì, ma mostrare la delusione, come ha fatto l’opposizione, per il mancato fallimento del negoziato non è stato un comportamento saggio. E neppure conveniente. Proprio non ci si vuole arrendere al fatto che il tanto-peggio-tanto-meglio, a proposito dell’andamento complessivo del Paese, non genera consenso nell’elettorato. Al contrario, spinge l’opinione pubblica ad una maggiore solidarietà verso coloro che responsabilmente compiono passi indietro in nome del bene del Paese. Quindi stare lì a sfotterli accusandoli di essersi fatti scrivere la manovra da Bruxelles, dopo che per settimane essi hanno piagnucolato sull’isolamento dell’Italia, che senso ha? Sul fronte opposto, anche la Commissione ha dimostrato di non voler infilarsi in uno scontro machista con i sovranisti italiani. Il commissario Pierre Moscovici lo ha detto esplicitamente: “Se vivessimo in una bolla che ignora l'atmosfera, con l'aumento dei nazionalisti, degli anti europei, degli anti burocrati, saremmo completamente matti. Noi sappiamo che era meglio arrivare a non aprire la procedura, piuttosto che averne una per il piacere del principio. Non possiamo ignorare il contesto".
Ecco, il contesto. Una parola che temevamo non rientrasse nel lessico degli eurocrati. Che è invece la chiave per annodare le scelte prese a livello centrale con la quotidianità con la quale i singoli Stati membri debbono fare i conti. Viene di pensare che se a Bruxelles si fosse tenuto in debita considerazione il cosiddetto contesto quando si varavano politiche economiche asfittiche, probabilmente il populismo non avrebbe avuto buon gioco. Ma l’accordo raggiunto ieri fa giustizia anche di un pericoloso luogo comune che stava prendendo piede nella narrazione della condizione degli europei: distruggere l’Unione europea per salvare l’Europa. Oggi sappiamo che una terza via, tra l’ottusità tetragona di certi europeisti puri e duri a voler lasciare le cose come sono e la corrispondente miopia dei fautori della distruzione della casa comune, esiste ed è quella della riforma sostanziale dell’architettura di regole che disciplinano i meccanismi di funzionamento e le competenze delle istituzioni comunitarie. Su questo terreno molto si può fare. Cosa sorprendente, anche gli impenitenti populisti/sovranisti che sono al potere in Italia hanno dimostrato di essere all’altezza del ruolo riformatore. Se il dibattito politico interno al Paese potesse essere rappresentato come una gara di canottaggio, diremmo che ieri l’imbarcazione giallo-blu ha messo una luce tra la sua poppa e le prore avversarie.
Ora, a chi è dietro si offrono due possibilità: cambiare il ritmo e l’ampiezza della vogata o fermarsi a fare boccacce agli avversari che, nel frattempo, prendono il largo. Fuori di metafora, alle opposizioni parlamentari, in particolare del centrodestra, s’impone un cambio di strategia nell’interlocuzione con il Governo e, soprattutto, la presa d’atto che il tempo per costruire l’alternativa ai giallo-blu sarà lungo. Per tale ragione servirebbe applicarsi alla costruzione di una visione di Paese che si discosti sensibilmente da quella che i penta-leghisti hanno messo nero su bianco con i numeri della manovra finanziaria. Il trascorrere le giornate in quelli che il governatore della Liguria Giovanni Toti, con sottile ironia, definisce inutili “gnè-gnè” non è che non porti da nessuna parte. Al contrario di ciò che si pensi, porta a sbattere.
di Cristofaro Sola