lunedì 3 dicembre 2018
Nella quotidiana disputa sui saldi di finanza pubblica, ci pensa l’Istat a fare un po’ di chiarezza. Il dato sul Prodotto interno lordo (Pil) del terzo trimestre di quest’anno segna una diminuzione dello 0,1 per cento rispetto al trimestre precedente. La stima tendenziale per il 2018, alla luce dell’ultima correzione, si attesta ad un +0,9 per cento su base annua. Che è un dramma se si considera che le stime di crescita confermate dal Governo nella manovra di Bilancio si attestano sull’obiettivo del +1,2 per cento nel 2018.
Per l’Istituto di statistica l’arretramento è dovuto alla diminuzione di tutti i principali aggregati della domanda, in particolare i consumi finali nazionali (-0,1%) e gli investimenti fissi lordi (-1,1%). Se anche nel quarto trimestre i numeri dell’economia dovessero stazionare in territorio negativo sarebbe recessione conclamata. Che non è propriamente la prospettiva più desiderabile per un Paese che, a fatica, sta cercando di recuperare il bandolo della matassa della scarsa o nulla crescita dell’ultimo decennio.
Purtroppo, anche in un’occasione che richiederebbe un’analisi di profondità delle cause a monte di una tra le peggiori performance nell’ambito dei partner europei, la politica politicante non riesce ad essere seria ma preferisce indugiare nel gioco dello scaricabarile. Per quelli che c’erano prima è colpa di coloro che oggi sono al timone del Paese se le cose hanno svoltato in negativo; per questi ultimi, invece, è responsabilità delle politiche implementate dai precedenti governi se adesso si paga il conto salato. Così non se ne esce. Ciò che importa è che i consumi interni si sono fermati, segno che chi ha soldi in tasca prova sfiducia rispetto al complessivo stato di salute del Paese per cui preferisce tenerseli stretti piuttosto che spenderli nel circuito produttivo. Altrettanto fanno le imprese, che dopo qualche anno di modesta espansione, molto incoraggiata dai provvedimenti di favore varati dai Governi di centrosinistra, hanno tirato i remi in barca optando per la tattica della pressione mediatica sull’odierno Esecutivo affinché assuma misure sul lato dell’offerta, non già per sfruttarne il potenziale espansivo sul fronte degli investimenti ma per ricavarne soltanto maggiori margini di profitto sull’esistente. Già, perché oggi gli imprenditori, per il tramite delle organizzazioni datoriali, piagnucolano chiedendo al Governo una sostanziosa riduzione della pressione fiscale, ma stranamente tacciono o sono alquanto reticenti sul come intenderebbero utilizzare gli eventuali benefici derivati da un taglio robusto delle tasse. Reinvestirebbero le plusvalenze o se le metterebbero in saccoccia?
Il dato Istat sul calo degli investimenti fissi lordi, reso ancor più cocente da un preoccupante -2,8 per cento delle spese per impianti e macchinari, farebbe sospettare che sia vera la seconda delle opzioni profilate. Probabilmente ha ragione Dario Di Vico che, dalle colonne del Corriere della Sera, spiega così il calo degli investimenti nel lungo termine: “La sensazione è che comunque si sia creato un effetto di polarizzazione tra imprese innovatrici e conservatrici, tra medio-grandi e piccole. La narrazione governativa non ha lavorato per ridurre questo gap di comportamenti, anzi volendo prendere le distanze a tutti i costi dal periodo Calenda in qualche maniera ha autorizzato pigrizie e ripensamenti”.
Sia come sia, ora tocca rimediare. Con lo spettro di una recessione alle porte, le rigidità ideologiche devono fare un passo indietro e lasciare che il pragmatismo della realtà faccia la sua parte. Il reddito di cittadinanza scandalizza? Pazienza. Se per sbloccare l’impasse della stagnazione dei consumi occorre che sia lo Stato a provocare una spinta immettendo liquidità nel circuito produttivo, lo si faccia. Si obietterà: ma la spesa in deficit è doping di mercato. Può darsi, ma non importa adesso andare tanto per il sottile, ciò che conta è che la macchina si rimetta in moto. Nove miliardi di euro destinati obbligatoriamente all’acquisto di generi alimentari e di prima necessità si traducono in nuovi ordinativi alle filiere produttive e, a caduta, in incremento della curva dell’occupazione. Se non si è per natura caritatevoli, la si veda così: anche la povertà può trasformarsi da problema in opportunità. A dirla tutta, se fossimo nei panni del ministro dell’Economia azzarderemmo un provvedimento se possibile ancor più d’impatto. Visto che non si ha il coraggio di abolire gli 80 euro-mancia voluti da Matteo Renzi per ingraziarsi il suo pubblico e verificato che quei denari elargiti dalle casse dello Stato non sono andati a incrementare i consumi, perché non pensare di erogarli con le stesse modalità previste per il Reddito di cittadinanza? Una carta elettronica per un buono-spesa mensile di 80 euro di valore in luogo del denaro in busta paga, destinato a depositarsi pressoché infruttuosamente nei conto-correnti. Per il ceto medio impiegatizio non sarebbe una novità, visto che presso molti dipendenti è in uso la prassi di utilizzare i ticket giornalieri per i pasti, previsti dai contratti di lavoro, in buoni da spendere, come recita un decreto del ministero dello Sviluppo economico del 2017: presso esercizi commerciali autorizzati alla ”vendita al dettaglio e la vendita per il consumo sul posto dei prodotti provenienti dai propri fondi effettuata dagli imprenditori agricoli” e presso gli agriturismi, gli ittiturismi e negli spacci industriali. Solo così si avrebbe la certezza di immettere una cifra colossale nel ciclo produttivo dalla quale attendersi significativi ritorni in Pil, in aumento del volume delle imposte sul valore aggiunto drenate e in tasso di occupazione.
Se, dunque, l’obiettivo primario del Governo giallo-blu è di rendere credibile quel +1,5 per cento di crescita nel 2019, da qualche parte dovrà pure cominciare. La misura di sostegno alla povertà, pur con tutti i limiti che essa comporta, oltre che un atto di riparazione sociale è un modo efficace per scioccare il sistema economico. Lo capiranno presto anche a Bruxelles.
di Cristofaro Sola