giovedì 29 novembre 2018
Il Decreto Legge Sicurezza e Immigrazione è legge. Ieri c’è stata l’approvazione in via definitiva alla Camera con 396 voti favorevoli e 99 contrari. Possiamo essere soddisfatti del lavoro compiuto dall’Esecutivo. Senza ipocrisie né calcoli opportunistici da bottega elettorale dobbiamo riconoscere la novità del ribaltamento della politica dell’accoglienza. Sembrava impresa titanica demolire la logica del multiculturalismo e della società senza frontiere imposta dall’ideologia progressista. Invece, Matteo Salvini sulla conversione in legge del decreto è andato dritto come un treno, trascinando con sé i riottosi alleati grillini.
Da oggi il nostro Paese si è dotato di un quadro normativo certo grazie al quale sarà possibile imprimere una vigorosa stretta alle norme che in passato hanno consentito a un’onda migratoria incontrollata di infrangersi sulle nostre coste. L’elemento saliente della nuova legge è che viene fortemente ridimensionata la cosiddetta protezione umanitaria, uno strumento ipocrita che ha consentito ai multiculturalisti di riempire la comunità nazionale di masse d’immigrati che non avrebbero dovuto essere accolte. La sinistra mastica amaro e si para dietro le lacrime di qualche povero disgraziato che, a favore di telecamere, chiede cosa sarà di lui adesso che non gli sarà consentito di restare sul nostro territorio.
Ma questa sinistra smemorata finge di dimenticare i tanti criminali arrestati in flagranza di reati particolarmente odiosi che avevano in tasca i famigerati permessi di soggiorno per motivi umanitari, rilasciati à gogò dalle nostre autorità. Non si raccontino sciocchezze, chi è stato vittima di persecuzioni troverà sempre protezione in Italia, mentre coloro che hanno intenzione di violare le nostre frontiere sappiano che non gli sarà permesso. E se mai dovessero farla franca si preparino ad essere rispediti indietro. Salvini ha parlato di rivoluzione, e ha ragione. Finalmente assistiamo ad un’inversione radicale di rotta nella scelta di mettere al centro un principio che il mondo progressista e multiculturalista ha tentato di scardinare. Si tratta della riabilitazione del concetto di confine che definisce la dimensione di patria quale terra dei padri, appartenente di diritto agli uomini e alle donne che la abitano perché vi sono nati e l’hanno ricevuta in eredità dalle generazioni che nei secoli l’hanno costruita con il lavoro e difesa con il sangue. Ciò non vuol dire che, in via assoluta, mai alcun straniero potrà avere la possibilità di venire nel nostro Paese e integrarsi nel sistema sociale, produttivo e culturale.
Ma dovrà farlo legalmente, cioè chiedendo il permesso, posto che abbia i requisiti richiesti, e attendendo l’autorizzazione all’ingresso da parte delle pubbliche autorità. È finito il tempo del c’è-posto-per-tutti, dell’ingresso libero a chiunque. Non si tratta di essere razzisti o xenofobi, ma di amare la patria e desiderare di assicurarne i fondamenti identitari. Più di un “illustre” multiculturalista ha teorizzato per gli italiani un futuro di migrazione sulla scorta dell’affermarsi del principio della globalizzazione secondo cui lo spostamento di grandi masse umane da alcune zone ad altre del pianeta debba meccanicisticamente fare seguito a quello, già in atto, delle merci e dei capitali. Negli anni della sinistra imperante abbiamo patito la lettura partigiana del fenomeno migratorio come necessità storica e, perciò, inarrestabile.
Oggi, la nuova traiettoria s’indirizza a smascherare la fallacia del provvidenzialismo escatologico multiculturalista. Il fenomeno migratorio non è bello né buono, è piuttosto una sciagura che non si deve augurare a nessuno. Migrazione significa sradicamento delle proprie radici, distruzione di culture e civiltà, negazione della dignità umana, perdita degli affetti personali e della memoria familiare e collettiva. Ma significa anche aggressione ai danni delle identità autoctone, delle culture, delle tradizioni religiose e del Mos maiorum delle comunità penetrate; creazione di zone franche monopolizzate da gruppi etnici allogeni che rifiutano pregiudizialmente ogni ipotesi d’integrazione nella pretesa di trapiantare in forme inalterate, nei Paesi d’approdo, gli apparati giuridico-valoriali, dotati di forza cogente, dei contesti di provenienza nonché i paradigmi dell’organizzazione sociale da essi derivati. In passato era quasi un luogo comune affermare che sarebbe stato bello vivere anche in Italia come si vive a Londra o a Parigi. Ebbene, se questa legge ci aiuterà ad evitare il rischio che le nostre metropoli si trasformino in quei suq multietnici che sono diventate le due principali capitali europee, dovremo essere grati a questo Governo, a prescindere dal fatto che le sue politiche in generale piacciano o no.
Ammettiamolo, noi italiani siamo specialisti nel guardare il bicchiere dalla parte in cui è vuoto, dando per scontata la metà piena. Ma sbagliamo. Mai come in questo caso ciò che è contenuto nella legge è un soddisfacente punto di partenza per rimettere a posto le cose in un Paese che ha corso il rischio di smarrire i suoi fondamenti valoriali a causa di una minoranza ideologica che ha sfruttato la temporanea occupazione del potere per sovvertire l’identità di una nazione. In questa felicissima circostanza non possiamo non elogiare il comportamento dell’opposizione di centrodestra che, pur non votando per evidenti ragioni politiche la fiducia posta dal Governo sul provvedimento in discussione alla Camera, ha comunque assicurato il suo appoggio ai contenuti della legge, segno che la partecipazione ad una battaglia di civiltà la quale richiami gli ideali di un’area politica omogenea debba sempre prevalere su ogni egoismo partitico. Ora, però, tocca al ministro dell’Interno fare buon uso dello strumento disposto dal Parlamento. Perché, come ammonirebbe il sommo poeta: qui si parrà la tua nobilitate.
di Cristofaro Sola