martedì 27 novembre 2018
Lo scoop delle “Iene” sul padre di Lugi Di Maio che avrebbe impiegato lavoratori in nero nella sua aziendina non è il “Watergate” della politica grillina. Neanche è paragonabile a ciò che è accaduto ad altri papà scomodi della politica italiana quali sono stati per i loro potenti figlioli il signor Tiziano Renzi e il signor Pier Luigi Boschi. È piuttosto lo specchio della realtà che restituisce il retroterra sociale e culturale dal quale proviene l’attuale vice-premier, super-ministro al Lavoro e alle Attività produttive e capo politico dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio.
Certo, non è propriamente un’immagine edificante ma racconta di una normalità del sistema produttivo meridionale che il mondo alto della grande imprenditoria, della cultura accademica, delle istituzioni pubbliche fa grande difficoltà a inquadrare. La storia di papà Di Maio racconta di un piccolo imprenditore che semplicemente cerca di cavarsela con la furbizia. La dimensione del personaggio è quella di un procacciatore di profitti grattati dalle pieghe di un’illegalità imprenditoriale di necessità. Come il signor Antonio Di Maio sono tanti i padroncini d’azienda che restano a galla esclusivamente violando le regole. Il leitmotiv di questa particolare categoria d’imprenditori che non frequenta i salotti dorati e le passamanerie dei saloni dell’Unione industriali, è uguale per tutti: “Se opero secondo le leggi, debbo chiudere bottega”.
Di Maio figlio non poteva non sapere che tale è la logica che muove gli interessi di una parte significativa d’imprenditoria nel Mezzogiorno d’Italia. Infatti, non è sembrato sorprendersi allo scoppio della notizia scandalistica. Non gliene facciamo una colpa, ma una possibile motivazione alle scelte che da politico sta compiendo, sì.
Alla luce di quello che potrebbe sembrare uno scandalo, ma non lo è almeno per le dimensioni da rubagalline degli illeciti ipotizzati, la misura anti-povertà del reddito di cittadinanza assume un nuovo significato, che si aggiunge a quelli, già noti, della propaganda pentastellata. L’intervento pubblico di welfare potrebbe trasformarsi, nelle intenzioni, del vice-premier, in una sorta di pacificazione sociale che consenta agli imprenditori borderline di chiamarsi fuori dal gioco produttivo avendo assicurato un sostegno economico dallo Stato. Il ragionamento potrebbe sembrare complicato per chi ha la fortuna di non vivere in contesti ambientali nei quali l’impronta della legalità non è identificabile con chiarezza. Al contrario, chi proviene da realtà di confine, dal punto di vista del rispetto sistematico delle regole, tale schema lo comprende benissimo. Se il padroncino d’impresa, che rimedia alla fine dell’anno un guadagno di alcune migliaia di euro, avendo però dovuto violare tutte le norme sul lavoro dipendente, quelle sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, evaso le tasse, pagato il pizzo alle organizzazioni criminali, combattuto con le banche non già per avere una linea di credito ma semplicemente per avere la disponibilità di un carnet di assegni, trascorso notti insonni a preoccuparsi dove rimediare liquidità per rimborsare gli usurai dai quali dipende per finanziarie le proprie attività, corso dietro ai clienti per costringerli ad onorare i pagamenti pattuiti, potesse fare di tutta una vita spesa in affanno un bel falò e ritirarsi in buon ordine a vita privata con la certezza che il 27 di ogni mese ci pensa lo Stato ad accompagnarti alla stagione della terza età, perché rinunziarvi? Ecco perché, ora e sempre Cinque Stelle!
A volerla prendere sportivamente si potrebbe perfino sostenere che messa così la misura del reddito di cittadinanza sia un altro modo di combattere il nero e l’illegalità nel fare impresa. Resta il problema d’immagine di un politico di vertice che ha un retroterra familiare non proprio esemplare. Ma questo è il prezzo da pagare all’emersione del “popolo degli abissi”. Che aspetto pensate abbia il disperato dei nostri giorni che vive arrangiandosi? Il “Quinto Stato” che avanza si porta dietro storie che non possono essere ritoccate con il maquillage dell’epopea romantica. Un tempo, forse, Luigi Di Maio avrebbe avuto dalla sua le pagine del libro “Cuore”, oggi può solo vantarsi della natura artificiale del suo personaggio pubblico, creato in vitro nei laboratori di genetica sociale della “Casaleggio & Associati” e posto sulla cresta di un’onda di marea che, al contrario, è reale e non virtuale. È questo il tempo di “Matrix” non quello di Edmondo De Amicis e di Giovanni Pascoli. O, forse, è il ritorno del vindice, quel maestro Marcello D’Orta di cui i contemporanei non seppero cogliere, a proposito di gente del Sud, il vaticinio nascosto in quel suo “Io, speriamo che me la cavo”.
di Cristofaro Sola