I “no” grillini e i “sì” leghisti

mercoledì 21 novembre 2018


Si è notata nei giorni scorsi una sorta di coerenza fra Luigi Di Maio e Matteo Salvini nella battaglia contro Bruxelles, tant’è che il capo leghista ha per dir così profetizzato che l’eventuale sanzione contro l’Italia “sarà un ottimo argomento da campagna elettorale perché se all’Europa non va bene, tiriamo dritti lo stesso”.

In effetti Salvini ritiene in un certo senso prossima ad esaurimento una Commissione europea che è invece tuttora viva e vegeta ma, nella sua speranza-certezza di una riscossa elettorale alle europee, le attese di un successo di antieuropei, sovranisti, scettici e insoddisfatti non sarebbero del tutto malriposte. Anzi. In questo senso, le accuse roventi e ripetute nei confronti di quella categoria speciale di cattivi antitaliani rappresentati dagli eurocrati si servono di antiche rimembranze come gli indimenticabili poteri forti accusati, innanzitutto, di gravi pregiudizi contro il Governo italiano.

Intendiamoci, qualcosa c’è, come sempre. Il fatto è che il Governo tende a farci ignorare che nel quadro attuale della situazione e delle ostilità nei confronti del “Nuovo che avanza”, il palmarès dei più cattivi va indubbiamente attribuito ai Paesi più poveri e periferici, attualmente costretti a enormi sacrifici per salvarsi. Il fatto è che basterebbe uno sguardo a certi giornali tedeschi, come Die Zeit, per rendersi conto una volta per tutte che le non poche preoccupazioni dei mercati internazionali (il ministro Giovanni Tria ne sa qualcosa e non lo nasconde) non vengono soltanto dalle scelte di politica fiscale e del bilancio nazionale annunciato dal Governo, ma dalle motivazioni politiche che li sostengono. Ovvero, come si dice: il problema è politico.

È probabile che un leader come Matteo Salvini - che di politica non è affatto digiuno a differenza dei colleghi pentastellati dentro e fuori Palazzo Chigi - sia cosciente di questo e si muova, anche nel significato letterale del termine visti i suoi viaggi nel profondo sud che denunciano non tanto e non solo un impegno di allargamento geopolitico di quello che fu il bossismo nordista dei Lumbard, ma anche un segnale di una campagna del 4 marzo per elezioni non solo europee ma, a dirla tutta, anticipate.

In questo senso gli scricchioli all’interno dell’alleanza fra leghisti e pentastellati si sentono e sono di certo destinati a crescere senza più il silenziatore usato spesso per nascondere le inevitabili, addirittura storiche divisioni fra due movimenti che hanno bensì scelto di governare in nome e per conto di quel “Nuovo che avanza” ma che non può comunque occultare le divaricazioni di non poco conto fra la visione di Beppe Grillo e la prospettiva di Salvini bastando a spiegarne lo spessore di entrambe, da un lato la decrescita, ancorché felice, prospettata dai pentastellati e, dall’altro, la crescita tout court che quelli del Carroccio ritengono decisiva per il destino italiano. Come a dire: il partito del no e quello del sì.

E l’esempio classico di questa frattura è sotto i nostri occhi basti osservare lo spettacolo, poco entusiasmante, dei rifiuti in scena in questi giorni con il no grillino alla costruzione di nuovi termovalorizzatori e, dalla parte dell’alleato al governo, il sì leghista. Uno scontro, come si diceva una volta, politico-programmatico, che spiega l’esistenza e la conseguente fattualità, peraltro sempre più complicata se non assente, di un Contratto di governo ritenuto sacro e inviolabile come la Bibbia con sullo sfondo il no del Movimento Cinque Stelle alle grandi opere, il sì ad un ecologismo sempre più acceso e l’affermazione di un ambientalismo spinto.

E dalla parte della Lega il sì alle grandi opere, ai termovalorizzatori, alle infrastrutture necessarie in una società e per una crescita il più possibile felici. E non si sa quale e quanto possa essere l’interesse politico dei due “vice” ad abbassare i toni, le promesse elettorali, le tensioni, le divaricazioni in un quadro destinato sempre più a infiammarsi. E a precipitare.


di Paolo Pillitteri