mercoledì 21 novembre 2018
Tra i moderati del centrodestra si respira una strana aria di briosa allegria. A provocarla è la speranza di una imminente fine dell’esperienza governativa giallo-blu. I quotidiani battibecchi tra Matteo Salvini e Luigi Di Maio lo farebbero pensare. Con il ritorno dei franchi tiratori, che in Parlamento cominciano a mandare in minoranza il Governo, sembra davvero che la situazione stia sfuggendo di mano e che le differenze di fondo tra il partito leghista e il movimento grillino stiano affiorando al punto da rendere impraticabile il prosieguo dell’alleanza. Le parole, poi, del leader leghista che rivalutano il passato comune nella coalizione con Forza Italia vengono interpretate dalla dirigenza forzista come il segnale inequivocabile di un prossimo Big Bang. Cosicché i moderati, ringalluzziti dalla possibilità di un rimescolamento di carte che li riporti in quota, discettano non più sul se ma sul quando l’Esecutivo giallo-blu salterà.
Ora, non vorremmo fare i menagramo ma tanta euforia appare inappropriata per alcune ragioni che proveremo a spiegare. In premessa vale richiamare la regola aurea, alla quale siamo graniticamente ancorati, secondo cui: “In politica nulla è mai come appare”. Ciò posto, la domanda da destinare ai moderati è: siete certi che la guerra di parole tra Salvini e Di Maio sia scontro vero o non si tratti, come ha chiosato qualche commentatore, di un ben orchestrato incontro di Wrestling? I due, pur litigando, sono più uniti di quanto diano a vedere. Inoltre, ad entrambi è chiara la prospettiva in caso di fallimento dell’alleanza: un ritorno anticipato alle urne che li penalizzerebbe anche a dispetto dei sondaggi favorevoli. Se è vero, infatti, che le rilevazioni sulle intenzioni di voto sono istantanee scattate sul presente, ciò che esse immortalano in questi giorni è la volontà maggioritaria di un elettorato che premia Lega e Cinque Stelle a condizione che stiano insieme ma nulla le foto dicono, né potrebbero, sulle conseguenze di una rottura traumatica del patto.
Altra domanda: davvero i moderati credono che Salvini e soci possano tornare a fare squadra insieme ai sostenitori di un rapporto soft con l’establishment di Bruxelles? Sul futuro del Paese la visione leghista se non è compatibile con quella attualmente espressa dai Cinque Stelle, lo è ancor meno con quella propugnata dalla versione “deberlusconizzata” di Forza Italia. Ma ammettiamo per ipotesi che si arrivi ugualmente alla fine prematura del Governo giallo-blu e che il presidente della Repubblica, Sergio Matterella, suo malgrado, sia costretto a rimandare gli italiani alle urne in brevissimo tempo, la coalizione di centrodestra su quale programma convergerebbe? Con quali chances di essere presa sul serio andrebbe dagli elettori a raccontare che i Cinque Stelle hanno portato il Paese alla rovina con la storia del Reddito di cittadinanza a 780 euro pro-assistito e, nel contempo, per non perdere il voto della povera gente del Sud, gli proporrebbe in alternativa il Reddito di dignità a 1000 euro mensili? Salvini, che non ha il cuore tenero, in cambio dell’accordo imporrà a Forza Italia il suo programma che è esattamente il contrario di quanto oggi professano gli autonominatisi eredi di Silvio Berlusconi, lotta senza quartiere all’establishment europeo compresa. La stella polare che guida le mosse di Salvini lo conduce ad insistere nel rapporto con i Cinque Stelle tenendo tuttavia alta la tensione sui grandi temi dello sviluppo economico. Lo scopo è di stimolare la maggioranza del Movimento grillino ad un mutamento irreversibile di visione. D’altro canto, il processo di maturazione di una forza politica giunta prematuramente alla responsabilità di guida del Paese per completarsi deve necessariamente abbandonare l’infantilismo estremista della vocazione utopistica e abbracciare un approccio al reale in linea con le istanze della comunità nazionale. Probabilmente un filosofo descriverebbe tale fase di transizione come il passaggio dall’“Essere” movimento ribellista, antisistema al “dover essere” partito che concorre con ruolo decisivo e “con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come prescrive il dettato costituzionale all’articolo 49. Un momento di questo processo di mutazione lo stiamo già vivendo.
A titolo esemplificativo, si consideri ciò che sta accadendo con le grandi opere. Dall’integralismo del “No”, cardine prepolitico della vagheggiata decrescita felice, prossima frontiera dell’umanità, il Cinque Stelle targato Luigi Di Maio ha già corretto la rotta accettando l’accordo con il gruppo industriale franco-indiano di Arcelor Mittal per il rilancio, e non la chiusura, dell’ex-acciaieria Ilva di Taranto; prendendo posizione per il completamento del Tap (Trans-Adriatic Pipeline) a Melendugno; annunciando che, visti i risultati dell’analisi costi-benefici, il terzo valico in Liguria si farà. E siamo solo a cinque mesi dall’insediamento del Governo. In futuro altre grandi opere pubbliche verranno sdoganate dal ministero delle Infrastrutture. Lo stesso accadrà sulla vicenda dei termovalorizzatori. Per adesso Salvini si è limitato a lanciare il sasso nello stagno grillino. La prima reazione è stata, come prevedibile, rabbiosa. Una volta che il polverone sollevato si sarà dissolto, comincerà l’opera di persuasione del leghista sul poroso partner pentastellato.
Salvini ha compreso perfettamente che i Cinque Stelle hanno un appeal elettorale che non può essere ignorato. Essi sono, metaforicamente parlando, come una grande lastra di pietra grezza che per essere impiegata nella costruzione della casa comune deve essere sgrossata. Per farlo occorrono sia lo scalpello, sia il bulino. Si tratta di un’impresa complicata, nobilitata dal fascino della sfida. Pensate sinceramente che il “Capitano” vi rinunci per tornare alla guerra dei bottoni con i moderati filo-merkelliani?
di Cristofaro Sola