Analisi del linguaggio: il “devi morire!”

lunedì 29 ottobre 2018


Il parallelo linguistico è forte e inquietante: le parole usate dai carabinieri che stavano tentando di occultare le vere modalità della morte di Stefano Cucchi nell’ottobre del 2009 e quelle dei pusher extracomunitari che speravano di farla franca con l’omicidio di Desirée Mariottini, per coincidenza avvenuto nell’ottobre di nove anni dopo, sono sostanzialmente le stesse: “Meglio se muore quel tossico”, “meglio che muoia lei che noi in galera”.

L’altro da sé, quello che non fa parte del gruppo di commilitoni o del clan degli spacciatori, meglio se scompare da questo mondo. Piuttosto che creare guai. A quelli che restano. Tempo fa si parlava dell’”analisi del linguaggio” come alternativa all’analisi del sangue del candidato politico prima di votarlo. Adesso si può fare un passo in più: che risultati danno queste analisi quando le si effettua? Ad esempio l’analisi delle intercettazioni dei carabinieri accusati di aver depistato le indagini sulla morte di Stefano Cucchi e quella sulle parole usate dai tre spacciatori, carnefici presunti di Desirée, così come riportati dai maggiori quotidiani, prese pari pari dall’ordinanza di custodia cautelare del gip di Roma? Il risultato di questa analisi, e di questa comparazione, dà lo stesso risultato che danno le analisi effettuate sul linguaggio dei politici che oggi vanno per la maggiore, Matteo Salvini e ancora di più Luigi Di Maio e gli esponenti grillini in genere. Linguaggio da tifosi di curva calcistica. Cori tante volte sentiti, sin da tanti anni orsono, quando il giocatore della squadra avversaria cadeva a terra dopo un fallo di un giocatore della squadra di casa. Quella per cui tutti tifano. Il coro era “devi morire!”, sostanzialmente. In cui si augura il male a chi si mette contro di noi. Sentimenti figli dell’ormai scomparso (o quasi) ideologismo che suonava così: “Il nemico di classe si abbatte, non si cambia”.

Adesso che le classi non ci sono più, avendo tutti accettato o subito una proletarizzazione culturale, un minimo comune denominatore che “più minimo” non si può, è rimasto comunque “il nemico”. Non di classe, magari, ma spesso di borgata. Comunque “un nemico”, uno qualunque. Che serve sempre di più a questa società che rifiuta ormai di affrontare i problemi con razionalità e pragmatismo. E spesso di onestà intellettuale. Per questo è nata una “metalingua”, che può essere usata indifferentemente – e non solo sui social media – da un pusher nigeriano, da un politico grillino, da un giornalista in un talk-show o da una carabiniere che l’ha fatta grossa.

Orbene, che succede quando le analisi del sangue danno un risultato negativo per i trigliceridi o le transaminasi? Si cambia la dieta, ad esempio. E lo stesso può avvenire per evitare che questo linguaggio d’odio che ci sommerge finisca per contagiare tutto un Paese che sembra ormai impazzito dietro i propri problemi e il proprio impoverimento, anche e soprattutto linguistico e culturale. Va cambiata la dieta delle parole. Va cambiato il linguaggio. Prima che sia troppo tardi.


di Dimitri Buffa