mercoledì 26 settembre 2018
La vendita (miliardaria) di Versace non può non richiamare qualche riflessione, passata, presente e futura. Ovviamente per i milanesi, ma varrebbe la pena anche per un po’ tutti noi. Perché?
Perché il simbolo Versace è mondiale ma, al tempo stesso, è milanese e non solo. Non solo e non tanto di una città ma, anche e soprattutto, di una famiglia e della sua vicenda che non può non ricordarci proprio quel passato. Che era, né più né meno, inquadrato nella grande vicenda dell’immigrazione. Interna, si capisce
Immigrazione dal sud al nord, dalla Calabria dei tanti Versace, per dire, alla Milano degli anni Sessanta e Settanta. “Milano, oh cara!”, si diceva allora e la frase è anche il titolo di un documentario cinematografico dei primi anni ’60 e, mi sia consentita la citazione, non solo del regista (chi scrive) ma degli sceneggiatori di nome Carlo Tognoli e Bettino Craxi, il che, tra l’altro, inquadra anche politicamente quel documento.
L’immigrazione fu definita “colossale” e incontrò non soltanto difficoltà ma reazioni non sempre affettuose se è vero come è vero che non pochi milanesi allora parlavano dei nuovi arrivati come dei “terùn”, i terroni, quelli della “terra di pipe” venuti su con tutta la famiglia, e i bisogni, a fianco. Ma poi, come si sa, sono gli stessi, centinaia di migliaia, che trovarono un lavoro, una sistemazione, una casa al punto che quartieri come il Gallaratese e Quarto Oggiaro sono stati costruiti soprattutto per loro. E, a dirla tutta, i loro figli e i nipoti oggi sono più milanesi dei cosiddetti locali e borbottano, quando non protestano, per certe vicende legate alla nuova immigrazione che, ovviamente, è diversa da quella precedente pur conservandone alcuni tratti.
Intendiamoci, i problemi, proprio perché diversi, a cominciare dalla lingua e dalla frequente clandestinità, non vanno né enunciati né dati per irrisolti o, quel che è peggio, risolti, fermo restando che anche nei sondaggi più recenti il tema più avvertito rimane sempre quello della insicurezza collegato spesso all’immigrazione, mentre le difficoltà economiche, la disoccupazione e il lavoro sono distaccate.
Certo, si parla di una Milano di oggi, e diciamolo pure, di un Nord Italia in cui le novità storiche odierne più evidenti si raccordano nella grande, mondiale, globale vicenda della globalizzazione che pone tematiche e problematiche che sono bensì nuove ma non sconosciute del tutto e comunque inquadrate in città e territori che ne hanno intravisto anche e soprattutto gli stimoli, le pressioni in meglio. E le opportunità che sono, a ben vedere, non tanto dissimili da quelle che cinquanta e più anni fa furono offerte alla famiglia Versace e quel suo genio che appartiene a tutti gli effetti a quella eccezionale vicenda del made in Italy cui la moda, in quella che la Ramazzotti chiamò la “Milano da bere”, attribuì ancor più notorietà, invenzioni, gusto ed eleganza: mondiali.
E non è dunque un caso che proprio questa mondialità che chiamiamo globalizzazione scrive oggi quello che qualcuno ha definito un addio, ovvero la vendita del simbolo Versace agli americani. Un addio che ha in sé un suo romanticismo ma, al tempo stesso, un segnale proprio perché l’operazione, a bocce ferme, non può non riguardare la presenza di quella Milano che fu la culla della moda e del suo made in Italy. Culla che non è affatto vuota, con i grandi nomi di Armani, Krizia, Etro, Curiel ecc.. Ma la globalizzazione delle culle si fa un baffo.
di Paolo Pillitteri