martedì 28 agosto 2018
La relazione del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli alle commissioni riunite della Camera e del Senato sul crollo del ponte Morandi di Genova, ha aperto le porte a un confronto su un tema molto controverso. Si tratta di quella che, impropriamente, è definita la nazionalizzazione delle autostrade. In realtà, potrebbe essere un eccellente argomento sul quale focalizzare il dibattito politico e culturale se non fosse un falso problema. La proprietà delle arterie autostradali è già dello Stato il quale ne ha solo in parte ceduto l’esercizio in concessione a privati. Il che ridimensiona sensibilmente la portata degli annunci dei Cinque stelle, amplificati dai media, di voler cogliere l’occasione del disastro di Genova per procedere, con la caducazione delle concessioni date ad Autostrade per l’Italia S.p.A., società del Gruppo Atlantia, a una massiccia statalizzazione della rete autostradale. Chi si oppone al colpo di maglio governativo si appella al rischio patente di mettere in discussione uno dei cardini dell’economia di mercato. L’Italia come l’Unione Sovietica? Francamente pensiamo che si esageri.
L’eventuale revoca delle concessioni e il conseguente ritorno del decisore pubblico alla gestione diretta, o per il tramite di una partecipata, della viabilità autostradale non costituisce un vulnus al processo di privatizzazione dei servizi essenziali. Per le sue oggettive caratteristiche l’esercizio dell’attività d’impresa nei servizi autostradali avviene in condizioni di monopolio naturale. Non vi può essere concorrenza nell’offerta perché la struttura concessa, per ogni segmento territoriale considerato, è unica e non può essere concessa a più soggetti privati contemporaneamente. L’avvento di Autostrade per L’Italia S.p.A nella gestione di 3.020 chilometri di rete autostradale a pedaggio, che serve una clientela di cinque milioni di persone, è avvenuto per sostituzione di un monopolista (lo Stato) con altro monopolista (un privato). La differenza sostanziale sta nel conseguimento del profitto. Il privato deve ricavare dalla sua impresa un utile che non può essere destinato, se non parzialmente, all’ammodernamento e alla messa in sicurezza delle strutture. Lo Stato, che non ha il problema dei dividendi in denaro da assicurare agli azionisti, potrebbe investire per intero l’avanzo di gestione nel miglioramento delle infrastrutture.
Ora, è conveniente che lo Stato ritorni a fare da sé? Non si tratta di avercela con i Benetton che, attraverso Sintonia S.p.A, la subholding finanziaria di famiglia, sono, con il 30,25 per cento, gli azionisti di riferimento di Atlantia la quale, a sua volta, detiene l’88,06 per cento della concessionaria Autostrade per l’Italia S.p.A.. Sebbene il comportamento avuto dai Benetton in occasione della tragedia di Genova non sia stato esemplare, la discussione nella quale si è infilata la maggioranza di governo ha un respiro più ampio della contesa, anche rabbiosa, con la società ritenuta responsabile del crollo del ponte. Il problema concreto che la vicenda genovese ha messo drammaticamente a nudo sta nella garanzia di una “congrua remunerazione del capitale investito” data dalla controparte pubblica al privato, mediante l’inserimento in concessione di un automatismo sull’aumento del costo dei pedaggi pari al 70 per cento dell’inflazione reale, svincolato dagli andamenti economici del Paese. Per bilanciare la “clausola paracadute” fissata, nell’aggiornamento del 2013, con “l’Atto aggiuntivo alla Convenzione unica sottoscritta il 12 ottobre 2007”, il decisore pubblico avrebbe dovuto impegnare la controparte ad agganciare le voci “Investimenti operativi” e “Miglioramento standard di sicurezza” all’oscillazione degli indicatori di performance sulla massa finanziaria disponibile (percentuale di spesa obbligatoria su ricavi), rilevati all’interno del Margine operativo lordo (Mol), stabilendo, oltre alla soglia garantita di rendimento, un tetto alla variazione in aumento dell’utile d’esercizio.
Si dirà: è come tarpare le ali all’imprenditore che lavora per massimizzare la ricchezza. Ma se un privato opera in condizioni di monopolio deve accettare alcune compressioni al profitto in funzione di un contemperamento con gli interessi generali della collettività che lo Stato ha il diritto-dovere di tutelare. Nel 2017, Autostrade per l’Italia S.p.A. ha segnato ricavi operativi pari a 3 miliardi 945 milioni di euro (+4 per cento rispetto al 2016). Di questi, 3 miliardi 590 milioni di euro da pedaggi (+3 per cento sul 2016). L’Ebitda (Earnings Before Interest, Taxes, Depreciation and Amortization), variante anglosassone dell’acronimo italiano Mol, è stato calcolato in 2 miliardi 453 milioni di euro, mentre l’utile d’esercizio è stato di 1 miliardo 42 milioni di euro. I costi esterni gestionali, condizionati dalla voce “manutenzione sulla rete”, sono stati pari a 483 milioni di euro, con un incremento di 20 milioni di euro rispetto al 2016, a causa della maggiore nevosità registrata nel 2017. Non c’è bisogno di essere analisti finanziari per accorgersi che non c’è proporzione tra ciò che Autostrade per l’Italia S.p.A. ha incassato con i pedaggi e ciò che ha speso in manutenzione. Non sappiamo se vi sia un nesso causa-effetto tra lo squilibrio contabile riscontrato e il crollo del ponte Morandi, sarà la magistratura ad accertarlo.
Resta, tuttavia, il dato generale dell’incompatibilità tra le ragioni del perseguimento del massimo profitto, proprie del privato, e l’interesse pubblico a vedere reinvestita in manutenzione e sicurezza delle infrastrutture la gran parte dei saldi operativi positivi. Se il privato non se la sentisse di negoziare il contenimento dei margini di profitto, dovrebbe passare la mano al pubblico. In alternativa, non sarebbe irragionevole se il Governo provasse a smarcarsi riprendendosi un asset che resta strategico per lo sviluppo del Paese.
di Cristofaro Sola